Articolo ripreso da qui:
http://intercom.publinet.it/ic13/2001.htm
Introduzione
Uscito nel 1968, 2001 Odissea nello Spazio, un film realizzato da Stanley Kubrick, ha suscitato fin dal primo momento un vivo interesse per le generazioni della cultura pop e psichedelica degli anni 60. Ma lo spessore e la complessità di tale film ci distolgono dal formulare spiegazioni troppo generiche e semplicistiche.
Secondo Kubrick: “ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico di 2001 odissea nello spazio. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.”
2001 rappresenta infatti un’esperienza non verbale: su due ore e diciannove minuti, vi sono poco meno di quaranta minuti di dialogo. Il film è dunque una esperienza intensamente soggettiva, capace di raggiungere gli stati profondi della coscienza dello spettatore, proprio come fa la musica.
Malgrado ciò nel film la soggettività collabora vivamente con la riflessione per ridare unità ad un contenuto spesso frammentario e disorganico. Questa intima unione fra sensibilità e intelletto che si realizza nello spettatore permette di catalogare il film come esperienza visiva assegnandogli un preciso posto all’interno della coscienza.
Esso invita alla riflessione, stimola l’intelletto a risolvere le numerose situazioni incomprensibili e problematiche del film. L’abilità del regista sta nel riprodurre all’interno del film shock tali da rendere lo spettatore attivo nel procedimento di comprensione dei frammenti per condurlo direttamente nel carattere della “postmodernità”.
Secondo Kubrick: “ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico di 2001 odissea nello spazio. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.”
2001 rappresenta infatti un’esperienza non verbale: su due ore e diciannove minuti, vi sono poco meno di quaranta minuti di dialogo. Il film è dunque una esperienza intensamente soggettiva, capace di raggiungere gli stati profondi della coscienza dello spettatore, proprio come fa la musica.
Malgrado ciò nel film la soggettività collabora vivamente con la riflessione per ridare unità ad un contenuto spesso frammentario e disorganico. Questa intima unione fra sensibilità e intelletto che si realizza nello spettatore permette di catalogare il film come esperienza visiva assegnandogli un preciso posto all’interno della coscienza.
Esso invita alla riflessione, stimola l’intelletto a risolvere le numerose situazioni incomprensibili e problematiche del film. L’abilità del regista sta nel riprodurre all’interno del film shock tali da rendere lo spettatore attivo nel procedimento di comprensione dei frammenti per condurlo direttamente nel carattere della “postmodernità”.
Questo lavoro cercherà di dimostrare un possibile confronto fra l’opera di Kubrick e il pensiero filosofico moderno, sottolineando come l’intero film abbia forti legami con la tradizione della filosofia esistenzialista.
La trama
Alle origini dell’uomo, un misterioso monolito compare sulla Terra. La sua presenza attiva l’intelligenza dei primati che comprendono l’uso delle ossa degli animali uccisi come armi per uccidere gli altri animali. 2001. Sulla Luna, in prossimità del cratere Tyco, è stato trovato un monolito la cui esistenza viene tenuta sotto il massimo segreto. Il monolito improvvisamente lancia un segnale indirizzato verso il pianeta Giove. Diciotto mesi dopo l’astronave Discovery si dirige verso il pianeta. A bordo si trovano due astronauti, Frank e David, tre ricercatori ibernati e il computer della nuova generazione, Hal 9000, in grado di controllare il funzionamento di tutta l’astronave, nonché di dialogare con gli astronauti. L’infallibile computer segnala un guasto in uno degli elementi esterni dell’astronave ma il pezzo, sottoposto a numerosi test, risulta essere in ottime condizioni di funzionamento. I due astronauti debbono arrendersi al fatto che Hal ha sbagliato e decidono di disattivarlo. Hal fa allora in modo che il pezzo venga rimesso al suo posto e trancia il tubo dell’ossigeno di Frank. Quando David, uscito per recuperare il cadavere del compagno, tenta di rientrare il computer glielo impedisce. L’astronauta distrugge la memoria del computer, apprende il vero scopo della missione ( raggiungere Giove per scoprire il mistero del monolito ) e arriva sul pianeta su cui morirà per rinascere a nuova vita.
Il linguaggio
Il linguaggio cinematografico costituisce uno degli elementi fondamentali per la comprensione del film e del ruolo che oggi la tecnica moderna del cinema ha assunto. Kubrick nelle sue opere mostra di aver compreso la “lezione” di una modernità illogica e priva di senso in cui la crisi epistemologica ha generato una crisi globale che ha investito l’identità dell’individuo e i sistemi di valori etici e morali: il film è infatti in primo luogo l’espressione più autentica di tale frammentismo e ciò viene demarcato attraverso i tagli, le continue dissolvenze e le interpolazioni che l’opera ripropone. Il carattere “discontinuo” di 2001 Odissea nello Spazio viene sapientemente realizzato da Kubrick attraverso la possibilità della simultaneità del linguaggio cinematografico moderno, che ci permette di evidenziare come da un lato l’uomo, nello stesso istante, viva esperienze così diverse e inconciliabili, e dall’altro in luoghi diversi e isolati sia protagonista delle stesse esperienze nel medesimo istante. Questo carattere di universalismo che il cinema possiede conferisce al regista la scelta di sviluppare nell’opera cinematografica la condizione frammentaria del reale attraverso la tecnica del discontinuo, nel tentativo costante però di tracciare un disegno organico e unitario che elimini le spinte centrifughe e la componente disorganica.
Nella consapevolezza del relativismo delle esperienze, il cinema, attraverso lo scorrere continuo dei frammenti della pellicola tale da sviluppare una sequenza di immagini inscindibili tra di loro, diventa perciò l’occasione di prendere coscienza del passato e del presente per diventare padroni del nostro essere spirituale e dare vita e colore all’esistenza che può riscattarsi solo da una prospettiva di un presente che rivaluta il passato.
In questo senso l’esperienza dello shock di cui parla Walter Benjamin nella raccolta Angelus Novus, può essere concepita come parte integrante della struttura discontinua del film attraverso la quale prende forma il messaggio e il senso dell’opera.
Lo spettatore deve porsi nei confronti del film con un atteggiamento di difesa che gli permette di proteggersi dagli shock, proprio come descrive Baudelaire nella poesia Le soleil della raccolta Fleurs du mal, in un duello continuo di scherma che accompagna l’artista durante il processo della creazione artistica.
Lo spettatore, proprio come l’artista nell’opera Baudeleriana, viene perciò stimolato alla difesa degli Shock nelle singole impressioni e nella riflessione che intraprende assegna ad ogni evento “un preciso posto temporale nella coscienza”, attribuendogli un senso e un valore preciso.
La forte carica emozionale che deriva dagli shock dell’esperienza creativa dell’artista viene riproposta davanti allo spettatore nell’opera cinematografica. In tal modo lo spettatore è introdotto all’interno del film, in medias res, partecipa attivamente e soggettivamente “nell’esperienza” del processo di creazione dell’artista e manifesta quel complesso meccanismo di feedback con il quale diventa un unicum inscindibile con l’opera cinematografica. Si instaura così quel rapporto tra shock e azione inibitoria nella coscienza chiarito dalla raccolta “Angelus Novus” di Walter Benjamin:
“Quanto maggiore è la parte dello shock nelle singole impressioni; quanto più la coscienza deve essere continuamente all’erta nell’interesse della difesa dagli stimoli; quanto maggiore è il successo con cui essa opera; tanto meno esse penetrano nell’esperienza; tanto più corrispondono al concetto di esperienza vissuta. La funzione peculiare della difesa dagli shock si può forse scorgere, in definitiva, nel compito di assegnare all’evento, a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza”. [1]
Nella consapevolezza del relativismo delle esperienze, il cinema, attraverso lo scorrere continuo dei frammenti della pellicola tale da sviluppare una sequenza di immagini inscindibili tra di loro, diventa perciò l’occasione di prendere coscienza del passato e del presente per diventare padroni del nostro essere spirituale e dare vita e colore all’esistenza che può riscattarsi solo da una prospettiva di un presente che rivaluta il passato.
In questo senso l’esperienza dello shock di cui parla Walter Benjamin nella raccolta Angelus Novus, può essere concepita come parte integrante della struttura discontinua del film attraverso la quale prende forma il messaggio e il senso dell’opera.
Lo spettatore deve porsi nei confronti del film con un atteggiamento di difesa che gli permette di proteggersi dagli shock, proprio come descrive Baudelaire nella poesia Le soleil della raccolta Fleurs du mal, in un duello continuo di scherma che accompagna l’artista durante il processo della creazione artistica.
Lo spettatore, proprio come l’artista nell’opera Baudeleriana, viene perciò stimolato alla difesa degli Shock nelle singole impressioni e nella riflessione che intraprende assegna ad ogni evento “un preciso posto temporale nella coscienza”, attribuendogli un senso e un valore preciso.
La forte carica emozionale che deriva dagli shock dell’esperienza creativa dell’artista viene riproposta davanti allo spettatore nell’opera cinematografica. In tal modo lo spettatore è introdotto all’interno del film, in medias res, partecipa attivamente e soggettivamente “nell’esperienza” del processo di creazione dell’artista e manifesta quel complesso meccanismo di feedback con il quale diventa un unicum inscindibile con l’opera cinematografica. Si instaura così quel rapporto tra shock e azione inibitoria nella coscienza chiarito dalla raccolta “Angelus Novus” di Walter Benjamin:
“Quanto maggiore è la parte dello shock nelle singole impressioni; quanto più la coscienza deve essere continuamente all’erta nell’interesse della difesa dagli stimoli; quanto maggiore è il successo con cui essa opera; tanto meno esse penetrano nell’esperienza; tanto più corrispondono al concetto di esperienza vissuta. La funzione peculiare della difesa dagli shock si può forse scorgere, in definitiva, nel compito di assegnare all’evento, a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza”. [1]
Nel film Kubrick si avvale di questo processo; possiamo indicarne delle tappe:
1. L’apparizione del monolito e lo stupore delle scimmie;
un mattino il capo del branco delle scimmie, il primo a svegliarsi, nota la presenza di un parallelepipedo nero eretto, di media grandezza. Le scimmie lo accerchiano con grida acute e alcune si raggruppano e lo circondano, o addirittura si avventurano a toccarlo. Il monolito è sin dall’inizio il simbolo che scardina la normalità dell’esistenza: la sua forma perfetta si staglia davanti ad una landa desolata raffigurata da forme irregolare e indefinibili. Il Requiem di Ligeti contribuisce ad aumentare il carattere misterioso dell’apparizione dell’oggetto enigmatico: il tono di ampio crescendo continuo e corale che procede per onde che si innalzano e rifluiscono, può sembrare tanto un lamento collettivo delle scimmie quanto un attacco o una minaccia, o ancora un’anticipazione sacra che culmina con accordi acuti.
2. Dopo il monolito:
l’idea; poco dopo, scomparso il monolito, il capo clan, frugando tra ossa di tapiro, ha l’idea (suscitata, suggerisce il montaggio, dal ricordo del monolito) di prenderne uno per servirsene come strumento per colpire altre ossa, farle saltare, poi distruggerle. Ha anche l’idea (suggerita dall’”inquadratura mentale” di un tapiro che si accascia) di servirsene come arma per uccidere la bestia.
3. Le scimmie carnivore e la prima arma;
Le scimmie si servono dell’osso arma per procacciarsi il cibo e conquistare una fonte d’acqua. Attorno al punto d’acqua ha luogo un violento scontro tra due clan. La tribù di cui seguiamo la storia utilizza l’osso – arma per prendere vantaggio sugli avversari e stordire il loro capo. L’apparizione del monolito ha segnato un passaggio fondamentale: l’uomo si è trasformato. Il primo segno di questa trasformazione è una intuizione, una nuova associazione mentale che gli ha fatto scoprire l’uso dello strumento per aggredire più efficacemente, cioè per essere vincente nella lotta per l’esistenza. La scimmia diventa carnivora, uccide per una sorgente d’acqua e si sente potente. L’evoluzione della specie ha avuto inizio con la competizione, la lotta per la vita, uno dei fondamentali meccanismi dell’evoluzione sia biologica che culturale.
4. Il lancio dell’osso;
l’immagine della conquista della sorgente d’acqua si conclude in un gesto di trionfo, il capo clan lancia in aria l’osso, che comincia a ricadere a ralenti ma al suo posto vediamo un veicolo spaziale di forma allungata fluttuare nello spazio. L’evoluzione, sembra dirci Kubrick, non si è mai arrestata: l’intelligenza ha permesso all’uomo di superare lo stadio animale per affermare il suo predominio di fronte alle altre specie dell’universo.
5. Lo spazio:
il percorso a 360° dell’ hostess in assenza di gravità; durante il volo dell’Aries una hostess serve l’equipaggio e il passeggero con un vassoio da pasto adatto all’assenza di gravità, camminando al suolo con delle suole adesive. L’uomo ha realizzato definitivamente il suo dominio nell’universo attraverso l’intelligenza e la tecnologia. Ma tale processo sembra aver operato una frattura fra soggetto e oggetto: il cervello e il sistema nervoso si sono sviluppati al di fuori dell’uomo, in intelligenze artificiali e in servizi di comunicazione interplanetari. La stazione spaziale e le astronavi sono ambienti asettici, freddi dove i rapporti interpersonali sono falsi e ipocriti e la vita rimane congelata. (gli astronauti ibernati nel Discovery). Kubrick mette in scacco la fiducia nel positivismo ottocentesco e il valore della ragione che ha bloccato l’istintività umana, racchiudendola nelle forme della tecnologia, (le immagini della lotta fra i due lottatori nella televisione), e ha portato l’uomo all’interno dei meccanismi alienanti della nuova società. L’imperialismo dell’intelligenza si è tradotto nella rimozione totale delle emozioni e degli istinti, e quindi nella separazione dalla natura e della vita con cui essi mantengono l’uomo in rapporto più diretto e immediato. Mentre la natura e la vita procedono dialetticamente per cicli di morte e nascita, l’intelligenza procede linearmente forzando questi ritmi naturali e pretendendo il suo dominio sulla realtà, divenendo in tal modo mostruosa e distruttiva. “Il mondo di 2001 è pronto a morire, è maturo per la morte, come sottolinea la musica intensamente malinconica di Kachaturian che accompagna l’esistenza monotona e vuota dei cosmonauti all’interno del Discovery.”
6. L’apparizione del monolito sulla Luna e l’eco;
nel corso di un volo in una navetta lunare a bassa quota, al di sopra dei crateri, veniamo a sapere che il monolito trovato è stato in apparenza “sepolto deliberatamente”, 4 milioni di anni prima e che emette un campo magnetico molto forte. La navetta atterra nei pressi di uno scavo illuminato aperto attorno a quest’oggetto. Gli uomini in scafandro marciano verso il monolito; uno degli studiosi porta la mano verso il monolito; uno di loro cerca di fotografare l’oggetto enigmatico, ma si inizia a sentire nel casco una sorta di sibilo stridente. Ancora una volta il monolito nero riappare per rompere e mettere in crisi l’apparente sicurezza, l’insieme delle conquiste realizzate dall’intelligenza umana. L’uomo, sembra dirci la presenza del monolito, deve abbandonare lo stato evolutivo a cui è giunto, per poter giungere allo stadio del superuomo. L’intelligenza è stata essenziale nell’evoluzione umana, ma ora non basta più, per quanto sviluppata e sofisticata sia diventata.
7. La regressione all’infanzia di HAL;
dopo aver recuperato il corpo senza vita del compagno, Dave si dirige verso il vano circuiti della memoria di HAL, e li disattiva malgrado le implorazioni del computer, che chiede a Dave di calmarsi, si scusa e poi lo supplica, quindi arriva alla fine al punto di cantare una canzone che gli è stata insegnata alla sua “nascita”. Disattivato HAL, scatta un messaggio pre – registrato che informa Dave sul vero scopo della missione, di cui era a conoscenza il solo HAL: il monolito trovato sulla Luna emetteva segnali in direzione di Giove, ma la sua funzione è rimasta misteriosa. In questa scena emerge uno dei protagonisti più interessanti del film, il computer HAL. Non è una figura in carne ed ossa, ma la sua presenza è ovunque: si percepisce attraverso i dialoghi con gli astronauti e si rivela nella figura dell’occhio – camera che scruta l’equipaggio analizzandone i più piccoli particolari. Anche in questo “personaggio” si manifesta la natura contraddittoria dell’intelligenza umana in esso riposta: l’apparente sicurezza esteriore rivela una necessità tutta interiore di far riemergere il carattere “umano” in esso presente. Egli è apparentemente privo di sentimenti e segue soltanto la sua logica di salvezza della missione, ma in realtà pone se stesso la di sopra di tutto a costo di distruggere la vita umana. La psicoanalisi infatti insegna che gli istinti e gli impulsi rimossi dalla ragione o inconsci continuano a lavorare in profondità, condizionando le scelte apparentemente logiche della ragione, rendendo ancor più pericoloso il suo procedere stabile e sicuro. HAL, sotto la sua “corteccia” elettronica, nasconde ricordi infantili e sentimenti umanissimi (la spersonalizzazione dell’uomo sembra qui accompagnarsi all’umanizzazione della macchina): via via che Dave esclude i circuiti che presiedono alle funzioni più evolute e sofisticate della sua intelligenza, emerge la paura e una cantilena che si perde nell’indistinto, nel ritorno alla dimensione pre – verbale. Il carattere distruttivo dell’intelligenza avvolge anche HAL, figura che non riesce ad uscire dal labirinto della ragione, dal suo metodo di conoscenza e comunicazione (Heuristic and ALgoritmic), perché non possiede “la chiave” dell’istinto umano di Dave.
8. Il viaggio oltre l’infinito;
la porta della dimensione spazio – tempo si apre ed inizia un viaggio nella luce, nei colori, nelle forme, nel mistero della materia; lo sguardo esterrefatto dell’astronauta rimescola alle fantasmagoriche visioni, fino ad essere unificato con esse. “L’uomo supera lo stadio animale con la tecnologia e raggiunge lo stato del superuomo liberandosi di quella stessa tecnologia.” Dave ha fatto ricorso alla distruttività e ai suoi istinti animali per uccidere HAL, il mostro onnipresente e minaccioso. Qui è iniziata la trasformazione dell’uomo verso il superuomo. Il passaggio è sottolineato dal viaggio allucinatorio di Dave: le forme regolari e simmetriche della realtà lasciano il posto a figure irregolari e indefinibili, ad un arcobaleno di colori che rendono evidente lo sforzo del personaggio per entrare nell’oltre.
9. Lo specchio nella stanza in stile Régence;
la capsula con la quale Dave ha affrontato il viaggio, si ritrova in una vasta e lussuosa suite d’hotel in stile Régence, chiusa ermeticamente e illuminata dal pavimento, circondata da rumori riverberati. Ci sembra di vedere un altro uomo, ma è lo stesso Dave, molto invecchiato, nel suo scafandro; esplora la camera, entra in una stanza da bagno, si vede in uno specchio, avvertiamo il rumore di una presenza, si volta e torna verso la camera principale: c’è un uomo in vestaglia. E’ lo stesso Dave, ancora più vecchio, che mangia, si volta, poi si alza lentamente e viene verso di noi, guarda se c’è qualcuno nella stanza del bagno, poi come se avesse constatato che non c’è nessuno, torna a sedersi alla tavola imbandita. Spostando la mano fa cadere un calice, poi si volta verso il letto e vede una forma strana distesa sopra un letto. E’ sempre Dave, molto vecchio, che alza la mano per indicare il monolito, ritto di fronte al letto. In questa scena Dave ha riconquistato l’unità con il mondo che aveva perso attraverso il dominio dell’intelligenza. Soggetto e oggetto tornano a coincidere, l’io si ritrova nella totalità della realtà. L’immagine in cui Dave si specchia e inizia a vedere le trasformazioni del Dave invecchiato, confermano l’ipotesi evidenziando come l’uomo sia ritornato all’interno del processo di creazione e distruzione della natura.
10. La metamorfosi di Dave;
la Luna, poi la Terra, una luce come di un altro pianeta di dimensioni equivalenti arriva da sinistra: è la testa di un feto gigantesco assomigliante a Dave, si volge verso la Terra e poi gira lo sguardo verso di noi.
La lettura del film
2001 Odissea nello Spazio: non ci sono stati altri viaggi. Così recitavano le locandine del film alle porte della sua prima apparizione al pubblico.
Un titolo ambiguo e di difficile interpretazione che richiama alla nostra mente le peregrinazioni di Ulisse, all’interno però del vasto panorama moderno della tecnologia e delle contemporanee scoperte scientifiche.
Il risultato di questo “strano” connubio è tuttavia sorprendente e affascinante, ricco di innumerevoli colpi di scena nel quale il pubblico rimane spesso disorientato, ma piacevolmente attratto dal suo carattere profondamente enigmatico.
Il film, come evidente nel titolo, è il viaggio del moderno Ulisse, Dave Bowman, l’uomo arco, la corda tesa verso l’infinito, l’assoluto. Non è chiara quale sia la meta del viaggio, in fondo il film, che si conclude con l’immagine di un feto astrale, nega una conclusione vera e propria per inserirsi, quasi umanamente, all’interno di quel ciclo naturale dove ogni cosa nasce, si sviluppa e muore per una successiva rigenerazione.
Certa è comunque la sua distanza dall’odissea omerica, e più in generale dal genere epico, nel quale i personaggi e le loro vicende si costruivano all’interno di un disegno ideologico unitario e organico che celebrava i valori di un’intera civiltà.
Nel film, al contrario, i personaggi restano abbandonati al loro destino, riscoprono un totale smarrimento di fronte alla vastità di uno spazio infinito dove l’uomo ha perso le sue coordinate.
Il senso delle vicende, di cui i personaggi si rendono protagonisti, e i valori etici e morali non sono dati come nel romanzo epico, ma vanno ricercati costantemente con la più nuda consapevolezza che difficile è la conquista dell’obbiettivo e la posta in gioco è il destino dell’identità dell’intero genere umano.
Il viaggio dunque non è il semplice sfondo del film, piuttosto uno dei temi centrali in quanto esso costituisce la possibilità e soprattutto la necessità di riscoprire la dimensione autentica dell’uomo, la sua vera natura che il mondo della tecnologia e delle ideologie hanno coperto.
L’arte, in questo caso il cinema, si propone di affrancare lo spirito dell’uomo, di liberarlo dalle sovrastrutture dell’umanità, rendendoci coscienti attraverso la sua conoscenza contemplativa e non utilitaria degli scompensi del reale. Ci mette di fronte allo specchio, proprio come fa Bowman nella stanza in stile Regéncy, permettendoci di ritrovare attraverso una sorta di regressione verso la nostra infanzia quel rapporto di immediatezza e ingenuità con il mondo che l’umanità ha nascosto dietro alle sue false illusioni del progresso.
Molti sono i riferimenti alle opere filosofiche di Nietzsche, uno dei principali filosofi del '900 che per primo ha anticipato l’esigenza di trovare un carattere di autenticità all’interno di una identità umana lacerata.
Nietzsche, nell’opera Nascita della Tragedia, elabora, attraverso un confronto con il mondo degli antichi, una profonda analisi del novecento, evidenziando, secondo la lezione di Schopenhauer, l’aspetto contraddittorio di questo secolo in una volontà irrazionale che tenta di razionalizzare la realtà anche nella sua natura spesso illogica e insensata. Il filosofo dichiara ancora una volta la distanza abissale che separa la nostra civiltà da quella greca, (distanza che si riscopre dunque anche in rapporto all’epica e alla tragedia greca) nella quale la dimensione caotica dello spirito dionisiaco rimaneva affiancata a quella della luce e della chiarezza dello spirito apollineo.
Nella modernità la componente dello spirito dionisiaco è stata fagocitata da quella razionale e razionalizzante dello spirito apollineo decretando in tal modo non solo la fine della tragedia ma anche quel carattere di indubbia organicità e compattezza che si creava al suo interno dal conflitto dialettico di queste due parti.
L’opera moderna si apre ad un messaggio problematico nel quale è difficile trovare la risposta di senso, il sistema dei valori della tragedia antica.
La sconfitta, la frustrazione, il senso di impotenza sono aspetti ormai evidenti nei protagonisti del film che scoprono nella tecnologia l’illusione di dare un senso alla realtà, di razionalizzarla mascherando però il carattere caotico e irrazionale dello spirito dionisiaco.
Il conflitto lacerante tra spirito apollineo e spirito dionisiaco si risolveva nella antichità nella promessa di una rigenerazione dell’eroe: l’angoscia e la sofferenza di una “doppia” realtà lasciava il posto ad una catarsi, ad una purificazione interiore che cancellava, nel momento della morte, la sofferenza dell’individuo per riportarlo ad una nuova vita.
Nella modernità la scomparsa della componente irrazionale dello spirito apollineo, a causa di una ragione totalizzante e chiarificatrice, ha decretato la fine della possibilità della rigenerazione: HAL, il computer umanoide, muore e la sua morte è definitiva, senza possibilità di proiettarsi verso una nuova esistenza; la sua morte è ricostruita nel passaggio che ripercorre le tappe verso la sua infanzia, è un ritorno al passato che preclude l’eternità del suo sistema.
Ma c’è un uomo, e questo è Dave Bowman, l’uomo arco, che esce dal mondo della tecnologia per ritrovare nella natura istintuale e pulsante dell’uomo l’autenticità della propria identità.
Scollega il computer, lascia il carattere dogmatico e assoluto della ragione, per ritrovare l’ingenuità del primate e una nuova ragione questa volta aperta e problematica.
Supera la fase di servitù nei confronti della morale e della scienza per risvegliare la libertà che è in lui; la sua è una volontà che da critica diventa man mano produttiva verso l’essenza dionisiaca della libertà umana e il gioco creativo della vita.
Un titolo ambiguo e di difficile interpretazione che richiama alla nostra mente le peregrinazioni di Ulisse, all’interno però del vasto panorama moderno della tecnologia e delle contemporanee scoperte scientifiche.
Il risultato di questo “strano” connubio è tuttavia sorprendente e affascinante, ricco di innumerevoli colpi di scena nel quale il pubblico rimane spesso disorientato, ma piacevolmente attratto dal suo carattere profondamente enigmatico.
Il film, come evidente nel titolo, è il viaggio del moderno Ulisse, Dave Bowman, l’uomo arco, la corda tesa verso l’infinito, l’assoluto. Non è chiara quale sia la meta del viaggio, in fondo il film, che si conclude con l’immagine di un feto astrale, nega una conclusione vera e propria per inserirsi, quasi umanamente, all’interno di quel ciclo naturale dove ogni cosa nasce, si sviluppa e muore per una successiva rigenerazione.
Certa è comunque la sua distanza dall’odissea omerica, e più in generale dal genere epico, nel quale i personaggi e le loro vicende si costruivano all’interno di un disegno ideologico unitario e organico che celebrava i valori di un’intera civiltà.
Nel film, al contrario, i personaggi restano abbandonati al loro destino, riscoprono un totale smarrimento di fronte alla vastità di uno spazio infinito dove l’uomo ha perso le sue coordinate.
Il senso delle vicende, di cui i personaggi si rendono protagonisti, e i valori etici e morali non sono dati come nel romanzo epico, ma vanno ricercati costantemente con la più nuda consapevolezza che difficile è la conquista dell’obbiettivo e la posta in gioco è il destino dell’identità dell’intero genere umano.
Il viaggio dunque non è il semplice sfondo del film, piuttosto uno dei temi centrali in quanto esso costituisce la possibilità e soprattutto la necessità di riscoprire la dimensione autentica dell’uomo, la sua vera natura che il mondo della tecnologia e delle ideologie hanno coperto.
L’arte, in questo caso il cinema, si propone di affrancare lo spirito dell’uomo, di liberarlo dalle sovrastrutture dell’umanità, rendendoci coscienti attraverso la sua conoscenza contemplativa e non utilitaria degli scompensi del reale. Ci mette di fronte allo specchio, proprio come fa Bowman nella stanza in stile Regéncy, permettendoci di ritrovare attraverso una sorta di regressione verso la nostra infanzia quel rapporto di immediatezza e ingenuità con il mondo che l’umanità ha nascosto dietro alle sue false illusioni del progresso.
Molti sono i riferimenti alle opere filosofiche di Nietzsche, uno dei principali filosofi del '900 che per primo ha anticipato l’esigenza di trovare un carattere di autenticità all’interno di una identità umana lacerata.
Nietzsche, nell’opera Nascita della Tragedia, elabora, attraverso un confronto con il mondo degli antichi, una profonda analisi del novecento, evidenziando, secondo la lezione di Schopenhauer, l’aspetto contraddittorio di questo secolo in una volontà irrazionale che tenta di razionalizzare la realtà anche nella sua natura spesso illogica e insensata. Il filosofo dichiara ancora una volta la distanza abissale che separa la nostra civiltà da quella greca, (distanza che si riscopre dunque anche in rapporto all’epica e alla tragedia greca) nella quale la dimensione caotica dello spirito dionisiaco rimaneva affiancata a quella della luce e della chiarezza dello spirito apollineo.
Nella modernità la componente dello spirito dionisiaco è stata fagocitata da quella razionale e razionalizzante dello spirito apollineo decretando in tal modo non solo la fine della tragedia ma anche quel carattere di indubbia organicità e compattezza che si creava al suo interno dal conflitto dialettico di queste due parti.
L’opera moderna si apre ad un messaggio problematico nel quale è difficile trovare la risposta di senso, il sistema dei valori della tragedia antica.
La sconfitta, la frustrazione, il senso di impotenza sono aspetti ormai evidenti nei protagonisti del film che scoprono nella tecnologia l’illusione di dare un senso alla realtà, di razionalizzarla mascherando però il carattere caotico e irrazionale dello spirito dionisiaco.
Il conflitto lacerante tra spirito apollineo e spirito dionisiaco si risolveva nella antichità nella promessa di una rigenerazione dell’eroe: l’angoscia e la sofferenza di una “doppia” realtà lasciava il posto ad una catarsi, ad una purificazione interiore che cancellava, nel momento della morte, la sofferenza dell’individuo per riportarlo ad una nuova vita.
Nella modernità la scomparsa della componente irrazionale dello spirito apollineo, a causa di una ragione totalizzante e chiarificatrice, ha decretato la fine della possibilità della rigenerazione: HAL, il computer umanoide, muore e la sua morte è definitiva, senza possibilità di proiettarsi verso una nuova esistenza; la sua morte è ricostruita nel passaggio che ripercorre le tappe verso la sua infanzia, è un ritorno al passato che preclude l’eternità del suo sistema.
Ma c’è un uomo, e questo è Dave Bowman, l’uomo arco, che esce dal mondo della tecnologia per ritrovare nella natura istintuale e pulsante dell’uomo l’autenticità della propria identità.
Scollega il computer, lascia il carattere dogmatico e assoluto della ragione, per ritrovare l’ingenuità del primate e una nuova ragione questa volta aperta e problematica.
Supera la fase di servitù nei confronti della morale e della scienza per risvegliare la libertà che è in lui; la sua è una volontà che da critica diventa man mano produttiva verso l’essenza dionisiaca della libertà umana e il gioco creativo della vita.
“…eppure proprio da una “riflessione” dell’anima era nato il mondo, dal suo ri-flettersi e innamorarsi della propria immagine che proiettata nel mezzo tenebroso, apparve come immagine e riflesso divino. La Tenebra, presa da cupidigia per lo splendore apparso nel suo mezzo, trattenne questa immagine come spoglia preziosa e, separandola dal suo principio luminoso, coinvolse la Luce nel recupero delle sue particelle rapite. Ma queste, nella loro discesa, divennero irriconoscibili, perché, trascinarono con sé il torpore di Saturno, la collera di Marte, la concupiscenza di Venere, l’avidità di Mercurio, la bramosia di Giove. Questi rivestimenti offuscarono la luce dell’anima, nascosero la sua presenza, resero difficile il suo riconoscimento non solo agli altri, ma all’anima stessa che, conciliandosi col suo rivestimento terreno, perse coscienza di sé…” [2]
L’anima aveva decretato il suo destino: ritrovare la “verità”.
La comprensione razionale del mondo aveva spinto l’intelletto greco su un nuovo cammino, patrimonio oggi di tutti gli uomini e di tutti i tempi, la riflessione razionale, la filosofia.
Il film, attraverso gli interrogativi dell’uomo sull’essere e sul vero, ripercorre le tappe della scienza aristotelica in assoluto, la filosofia prima: l’essere in quanto essere e il soprasensibile, o Metafisica.
Kubrick ripropone dunque la secolare domanda sull’essere e sul vero allo spettatore. Non è però una domanda univoca perché ripercorre le diverse declinazioni che l’interrogativo ha assunto durante la storia occidentale: l’essere, il vero, l’identità dell’uomo, la possibilità della conoscenza da parte della razionalità, la scienza e la tecnica come nuovo rapporto tra l’io e il mondo.
Sollecitato da questi interrogativi, ma in qualcuno forse appagato, lo spettatore è lasciato con tutti gli altri solo di fronte a se stesso, al pensiero e alla storia. Le domande come le risposte restano aperte, e, forse, tali resteranno per sempre.
2001 Odissea nello Spazio, può collocarsi allora, ad esempio, all’interno della tradizione esistenzialista. Diventa il tentativo di liberare l’anima dalla condizione di opacità. Il film, come già sottolineato precedentemente, ha in sé i termini del linguaggio nietzschiano: il passaggio dell’anima e quindi dell’uomo da una condizione alienata a una più viva coscienza di sé tramite l’esperienza tragica. Dave si difende dalla morte e dall’onnipotenza esterna dell’io, nella fattispecie della “brutalità tecnologica” rappresentata dalla negazione della identità individuale e dalla morte decisa e attuata da HAL dei suoi compagni.
Ora può seguire il suo destino: intraprende il viaggio. Nell’orizzonte siderale, segnato come limite da superare attraverso la figura del monolito, l’astronauta, con le sue sole forze, si spinge “oltre l’uomo” per ritrovarsi, per riprendere su di sé la potenza dell’istinto. Per realizzare il suo obbiettivo deve però sconfiggere il deus ex machina, quella tecnologia già pre – posta a risolvere, come la divinità nell’antico teatro, la sua esistenza.
Le metafore sceniche non terminano a causa di una altra figura enigmatica, la presenza del monolito.
Questo oggetto–figura, enigmatico e simbolico allo stesso tempo, assume la “controfigura” in quasi tutte le scene del film. Esso è per così dire coprotagonista sia degli animali nel momento evolutivo sia degli astronauti, tra cui di Dave stesso. Perfetto nella sua geometria, si staglia, si oppone allo sguardo, Nero come manifestazione e impenetrabilità, cangiante nelle profondità astrali. Viene scoperto dagli uomini “futuri”, quegli uomini che hanno dal '700 in poi rinnegato la metafisica come valevole per la scienza e la tecnica. La metafisica è ora accusata di aver dimenticato le questioni reali e concrete, perdendo inevitabilmente il suo valore di veridicità; essa è ormai definita come l’oblio dell’essere.
Appare chiaro che, il monolito, il cui disseppellimento è testimoniato dalla visita di ricercatori astronauti, è l’interrogativo che il regista Kubrick pone all’uomo di oggi: è possibile affrontare all’infuori della razionalità i temi dell’essere dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? E’ realmente certo che la strada da percorrere sia privare la ragione umana della necessità di riportare all’unità fondamentale, alla sintesi, all’uno la conoscenza. Forse è giunto il tempo di riscoprire o formulare la Metafisica.
Dave, il tramite di Kubrick con lo spettatore, è l’uomo che guardandosi nello specchio e ripresentando a se stesso la propria anima, rinnova la domanda del regista riproponendola al pubblico.
L’anima, descritta nel passaggio da Macrobio, era nata come pura interiorità: Platone ne aveva rafforzato la sua natura spirituale attraverso la distanza dal mondo e invitandola a “concentrarsi tutta sola in se stessa e a non creder nient’altro che a se stessa”. Ma nell’evoluzione del pensiero filosofico e precisamente con Cartesio assistiamo alla trasformazione dalla sua natura spirituale alla sua “esteriorizzazione nel mondo”: Cartesio infatti radicalizzando il dualismo platonico finisce con l’abolirlo, risolvendo il mondo come rappresentazione razionale dell’anima. L’anima a questo punto non è più raccolta nella sua interiorità, ma diventa “coestensiva” al mondo. [3]
“La verità del cogito cartesiano è di altro tipo: è un’intuizione che si impone a noi con indiscutibile immediatezza al di fuori e al di sopra di ogni dubbio. E’ il primo, più caratteristico, esempio di una verità assolutamente evidente. Con la scoperta del cogito, Cartesio dà inizio alla metafisica soggettivistica moderna …Con essa si riconosce al pensiero una situazione assolutamente privilegiata, quale “sostanza” che non richiede nulla di altro da sé, cui venire riferita o appoggiata. Il pensiero, così inteso, non risulta soltanto la prima verità, ma il punto di partenza di qualsiasi ulteriore verità.” [4]
La comprensione razionale del mondo aveva spinto l’intelletto greco su un nuovo cammino, patrimonio oggi di tutti gli uomini e di tutti i tempi, la riflessione razionale, la filosofia.
Il film, attraverso gli interrogativi dell’uomo sull’essere e sul vero, ripercorre le tappe della scienza aristotelica in assoluto, la filosofia prima: l’essere in quanto essere e il soprasensibile, o Metafisica.
Kubrick ripropone dunque la secolare domanda sull’essere e sul vero allo spettatore. Non è però una domanda univoca perché ripercorre le diverse declinazioni che l’interrogativo ha assunto durante la storia occidentale: l’essere, il vero, l’identità dell’uomo, la possibilità della conoscenza da parte della razionalità, la scienza e la tecnica come nuovo rapporto tra l’io e il mondo.
Sollecitato da questi interrogativi, ma in qualcuno forse appagato, lo spettatore è lasciato con tutti gli altri solo di fronte a se stesso, al pensiero e alla storia. Le domande come le risposte restano aperte, e, forse, tali resteranno per sempre.
2001 Odissea nello Spazio, può collocarsi allora, ad esempio, all’interno della tradizione esistenzialista. Diventa il tentativo di liberare l’anima dalla condizione di opacità. Il film, come già sottolineato precedentemente, ha in sé i termini del linguaggio nietzschiano: il passaggio dell’anima e quindi dell’uomo da una condizione alienata a una più viva coscienza di sé tramite l’esperienza tragica. Dave si difende dalla morte e dall’onnipotenza esterna dell’io, nella fattispecie della “brutalità tecnologica” rappresentata dalla negazione della identità individuale e dalla morte decisa e attuata da HAL dei suoi compagni.
Ora può seguire il suo destino: intraprende il viaggio. Nell’orizzonte siderale, segnato come limite da superare attraverso la figura del monolito, l’astronauta, con le sue sole forze, si spinge “oltre l’uomo” per ritrovarsi, per riprendere su di sé la potenza dell’istinto. Per realizzare il suo obbiettivo deve però sconfiggere il deus ex machina, quella tecnologia già pre – posta a risolvere, come la divinità nell’antico teatro, la sua esistenza.
Le metafore sceniche non terminano a causa di una altra figura enigmatica, la presenza del monolito.
Questo oggetto–figura, enigmatico e simbolico allo stesso tempo, assume la “controfigura” in quasi tutte le scene del film. Esso è per così dire coprotagonista sia degli animali nel momento evolutivo sia degli astronauti, tra cui di Dave stesso. Perfetto nella sua geometria, si staglia, si oppone allo sguardo, Nero come manifestazione e impenetrabilità, cangiante nelle profondità astrali. Viene scoperto dagli uomini “futuri”, quegli uomini che hanno dal '700 in poi rinnegato la metafisica come valevole per la scienza e la tecnica. La metafisica è ora accusata di aver dimenticato le questioni reali e concrete, perdendo inevitabilmente il suo valore di veridicità; essa è ormai definita come l’oblio dell’essere.
Appare chiaro che, il monolito, il cui disseppellimento è testimoniato dalla visita di ricercatori astronauti, è l’interrogativo che il regista Kubrick pone all’uomo di oggi: è possibile affrontare all’infuori della razionalità i temi dell’essere dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? E’ realmente certo che la strada da percorrere sia privare la ragione umana della necessità di riportare all’unità fondamentale, alla sintesi, all’uno la conoscenza. Forse è giunto il tempo di riscoprire o formulare la Metafisica.
Dave, il tramite di Kubrick con lo spettatore, è l’uomo che guardandosi nello specchio e ripresentando a se stesso la propria anima, rinnova la domanda del regista riproponendola al pubblico.
L’anima, descritta nel passaggio da Macrobio, era nata come pura interiorità: Platone ne aveva rafforzato la sua natura spirituale attraverso la distanza dal mondo e invitandola a “concentrarsi tutta sola in se stessa e a non creder nient’altro che a se stessa”. Ma nell’evoluzione del pensiero filosofico e precisamente con Cartesio assistiamo alla trasformazione dalla sua natura spirituale alla sua “esteriorizzazione nel mondo”: Cartesio infatti radicalizzando il dualismo platonico finisce con l’abolirlo, risolvendo il mondo come rappresentazione razionale dell’anima. L’anima a questo punto non è più raccolta nella sua interiorità, ma diventa “coestensiva” al mondo. [3]
“La verità del cogito cartesiano è di altro tipo: è un’intuizione che si impone a noi con indiscutibile immediatezza al di fuori e al di sopra di ogni dubbio. E’ il primo, più caratteristico, esempio di una verità assolutamente evidente. Con la scoperta del cogito, Cartesio dà inizio alla metafisica soggettivistica moderna …Con essa si riconosce al pensiero una situazione assolutamente privilegiata, quale “sostanza” che non richiede nulla di altro da sé, cui venire riferita o appoggiata. Il pensiero, così inteso, non risulta soltanto la prima verità, ma il punto di partenza di qualsiasi ulteriore verità.” [4]
Come si sa Cartesio per giungere dall’io al mondo deve passare per l’essere divino. L’idea di perfezione, nella triplice distinzione di idee in avventizie, fittizie e innate, confermata dall’idea della nostra imperfezione, non può sorgere dall’imperfezione, ma deve nascere in noi da un essere perfetto: l’essere divino. Egli rappresenta la sostanza nel più completo significato della parola.
La metafisica cartesiana si apre al carattere reale e concreto del mondo senza mai lasciare il suo contatto con l’essere divino: Dio infatti non può permettere che noi abbiamo idee chiare e distinte alle quali non corrisponda nulla di reale. In senso assoluto il termine sostanza conviene a Dio (Aristotele), in senso relativo esso è applicabile anche alle realtà create, anche se la loro esistenza è legata all’essere divino. L’io è una sostanza finita e il suo attributo diventa il pensiero; le altre sostanze non pensanti sono i corpi, il loro attributo è l’estensione.
La geometria viene definita da Cartesio come un idea chiara e distinta che coniuga in sé i caratteri di “perfetta evidenza” e di concretezza poiché fornisce anche l’idea del movimento come spostamento da un punto all’altro dello spazio. Risulta dunque che l’idea dell’io pensante e non esteso, e quella del corpo esteso e non pensante sono idee “interamente e realmente distinte” che non sono costruite dall’io ma devono derivare dalle cose materiali e concrete.
La metafisica cartesiana si apre al carattere reale e concreto del mondo senza mai lasciare il suo contatto con l’essere divino: Dio infatti non può permettere che noi abbiamo idee chiare e distinte alle quali non corrisponda nulla di reale. In senso assoluto il termine sostanza conviene a Dio (Aristotele), in senso relativo esso è applicabile anche alle realtà create, anche se la loro esistenza è legata all’essere divino. L’io è una sostanza finita e il suo attributo diventa il pensiero; le altre sostanze non pensanti sono i corpi, il loro attributo è l’estensione.
La geometria viene definita da Cartesio come un idea chiara e distinta che coniuga in sé i caratteri di “perfetta evidenza” e di concretezza poiché fornisce anche l’idea del movimento come spostamento da un punto all’altro dello spazio. Risulta dunque che l’idea dell’io pensante e non esteso, e quella del corpo esteso e non pensante sono idee “interamente e realmente distinte” che non sono costruite dall’io ma devono derivare dalle cose materiali e concrete.
Con Cartesio dalla metafisica qualitativa aristotelica si ha l’evoluzione verso la metafisica quantitativa. I suoi principi dell’evidenza e delle idee chiare e distinte hanno posto in stato di evoluzione le scienze e la ricerca delle verità. Dobbiamo dire che da allora sono stati compiuti grandi sforzi per liberare le scienze dal vincolo metafisico.
Cartesio ha umanizzato la scienza destinandola definitivamente al campo della razionalità, del pensiero, liberandola da animismo e magia, forze occulte o astrali; dopo di lui si cercherà di affrancare la scienza, la ragione da qualsiasi principio esterno. La gnosi cartesiana è allo stesso tempo testimonianza dell’esistenza divina e della sua intrinseca perfezione, giustificazione della razionalità dell’uomo e legame di esso al mondo.
Il monolito può riassumere la concezione della nuova metafisica, è l’estensione perfetta e distinta che lega l’idea al mondo concreto dei corpi e che rinnova continuamente l’interrogativo kubrickiano se sia possibile affrontare i temi dell’essere e del vero attraverso una metafisica che assuma i caratteri di evidenza logica e di estensione materiale.
Con Nietzsche assistiamo poi ad una destabilizzazione della concezione cartesiana di metafisica: essa sembra ormai aver perso qualsiasi legame con l’essere divino, sostituita da un atteggiamento di indagine scientifica che basa il proprio criterio di veridicità unicamente sul riscontro diretto dei fatti osservati. Nietzsche, che vive la parabola della concentrazione dell’anima su se stessa, coglie il processo di esteriorizzazione e lo descrive come passaggio dall'anima come fondamento soggettivo (anima egologica), all'anima intesa come atto del pensare (anima funzionale). Così per questo filosofo, nelle opere “Nascita della tragedia” e “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, alla scienza è riservato un orizzonte più ampio e disinteressato, libero dal pathos metafisico.
“Questa riflessione inaugurata Nietzsche porterà a sostituire l’”anima” della filosofia moderna, che si esprimeva nel soggetto impersonale della rappresentazione, con l’”anima” che la scienza esprimerà come ordine della rappresentazione, come insieme dei saperi che comprendono anche il sapere che parla del soggetto. A questo punto l’anima non è più egologica ma funzionale, non riflette più l’Io individuale e soggettivo o l’Io ideale e intersoggettivo, ma l’organizzazione del mondo tramite un corpo di discipline a cui la tecnica da attuazione con le sue procedure.” [5]La concentrazione dell’anima su se stessa ha come conseguenza la neutralizzazione, come sostiene il filosofo Galimberti, tra interiorità ed esteriorità, tra realtà ed apparenza, scompare definitivamente la linea di demarcazione tra attività e passività. L'uomo della modernità non è più in grado di partecipare attivamente al gioco della vita, di incidere con la propria creatività in un mondo che ormai è diventato ipertecnologico. La sua forza sta nella adattabilità a tale struttura, sottrarvisi vorrebbe dire morire. Risultato di tutto ciò è un essere che ha perso la facoltà del pensare, delegandola ad automi sempre più intelligenti e antropomorfizzati, a differenza invece dell'uomo stesso che coinvolto in questo meccanismo perverso ha indebolito le proprie facoltà intellettive.
Se la scienza assume ora il compito e le funzioni della metafisica pur rivendicando la sua emancipazione dall’essere divino cartesiano e dalla tradizione razionalista e avviene la coincidenza tra interiorità e esteriorità, il problema diventa quello della significatività.
Heidegger lo propone in quanto l’uomo è un chi, una “esistenza” (existenz) e il suo modo di essere è “essere nel mondo” come apertura ad esso. Il Da-sein, l’esser-ci, è nel senso di essere aperto e di essere l’apertura al mondo. Il modo con cui il Dasein si apre al mondo è la significatività. Aperto originariamente al mondo tramite i modi esistenziali della situazione emotiva, della comprensione e del discorso, l’uomo gode della comprensione dell’essere dell’ente ed è in base ad essa che pone in questione il proprio essere. Egli si scopre gettato nel “ci” dell’apertura, mentre la comprensione è proiezione attiva, è progetto o interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa, cioè in quanto rinvia ad altro nella rete di significatività del mondo. La “cura” è l’essere del Da-sein umano, l’unità di esistenzialità (progetto) che insieme alla significatività del mondo ne segna la finitezza, riscoprendo il suo essere ogni volta assegnato al mondo e dipendente da esso. Il modo di essere imperfetto però del Dasein stesso fa decadere l’uomo dal proprio autentico poter essere se stesso nel mondo quotidiano. Il percorso suggerito dal filosofo per un’esistenza autentica dell’uomo è di assumere la morte come apertura dell’esserci alle altre possibilità in modo autentico: precorrendo la morte l’esserci non si chiude in una situazione definitiva, ma assume se stesso come eterno poter essere, divenire, ponendosi di fronte alle infinite possibilità che la realtà gli offre, scegliendo responsabilmente di fronte ad esse, senza irrigidirsi nelle scelte che opera.
Nell’ontologia heideggeriana interiorità ed esteriorità ritrovano dunque una dignità reciproca e si separano, mantenendo i legami.
Secondo il linguaggio heideggeriano, Dave compie il suo viaggio, sceglie di rifiutare la condizione passiva dell’essere gettato nel mondo per precorrere la morte e riscoprire la propria autenticità.
Solo allora la sua anima può ritornare a rispecchiarsi nella terra, ritornare grande e immensa, come lo era al momento della sua nascita, quanto l’universo che la circonda.
La figura del monolito e gli “shock” dell’opera cinematografica chiamano continuamente in causa lo spettatore, invitandolo attraverso l’esperienza del film, a distogliersi dalla molteplicità dei fenomeni per ritrovare la significatività, elemento a cui sembra rivolgersi il gesto della deissi finale, il dito proteso e indicante il monolito.
Richiamare in causa la soggettività dell’uomo significa riaprire l’orizzonte della significatività all’intenzionalità e alla progettualità della coscienza.
Attraverso il film siamo continuamente spinti a superare l’analisi e l’ordine dei fenomeni, per ritrovare la necessità di un recupero degli universali, che la scienza moderna ha negato attraverso il suo materialismo e determinismo. Scrive Husserl: “L’esclusività con cui nella seconda metà del secolo XIX, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla “prosperity” che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”.
L’idea di una metafisica quantitativa cartesiana e della creazione di una filosofia trascendentale di stampo kantiano, ripresa successivamente dalla fenomenologia di Husserl, rinnovano i dubbi e i rischi moderni di una scienza che rivendica la propria possibilità di risolvere nell’orizzonte di un panorama sempre rivolto al reale e al concreto i temi sull’essere e sul vero.
Dave, unità di Kubrick con lo spettatore, è anche unità con tutti gli uomini autentici. Gli interrogativi di Dave e di Kubrick stesso diventano ricerca dell’autenticità per lo spettatore. L’uomo-spettatore è costretto a rifiutare la sua funzione spettatrice, è chiamato in causa direttamente in quanto è essere umano che ha la strada aperta per porsi l’interrogativo della sua autenticità. E ancora una volta domande e risposte restano aperte sull’umano e sul mondo.
Cartesio ha umanizzato la scienza destinandola definitivamente al campo della razionalità, del pensiero, liberandola da animismo e magia, forze occulte o astrali; dopo di lui si cercherà di affrancare la scienza, la ragione da qualsiasi principio esterno. La gnosi cartesiana è allo stesso tempo testimonianza dell’esistenza divina e della sua intrinseca perfezione, giustificazione della razionalità dell’uomo e legame di esso al mondo.
Il monolito può riassumere la concezione della nuova metafisica, è l’estensione perfetta e distinta che lega l’idea al mondo concreto dei corpi e che rinnova continuamente l’interrogativo kubrickiano se sia possibile affrontare i temi dell’essere e del vero attraverso una metafisica che assuma i caratteri di evidenza logica e di estensione materiale.
Con Nietzsche assistiamo poi ad una destabilizzazione della concezione cartesiana di metafisica: essa sembra ormai aver perso qualsiasi legame con l’essere divino, sostituita da un atteggiamento di indagine scientifica che basa il proprio criterio di veridicità unicamente sul riscontro diretto dei fatti osservati. Nietzsche, che vive la parabola della concentrazione dell’anima su se stessa, coglie il processo di esteriorizzazione e lo descrive come passaggio dall'anima come fondamento soggettivo (anima egologica), all'anima intesa come atto del pensare (anima funzionale). Così per questo filosofo, nelle opere “Nascita della tragedia” e “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, alla scienza è riservato un orizzonte più ampio e disinteressato, libero dal pathos metafisico.
“Questa riflessione inaugurata Nietzsche porterà a sostituire l’”anima” della filosofia moderna, che si esprimeva nel soggetto impersonale della rappresentazione, con l’”anima” che la scienza esprimerà come ordine della rappresentazione, come insieme dei saperi che comprendono anche il sapere che parla del soggetto. A questo punto l’anima non è più egologica ma funzionale, non riflette più l’Io individuale e soggettivo o l’Io ideale e intersoggettivo, ma l’organizzazione del mondo tramite un corpo di discipline a cui la tecnica da attuazione con le sue procedure.” [5]La concentrazione dell’anima su se stessa ha come conseguenza la neutralizzazione, come sostiene il filosofo Galimberti, tra interiorità ed esteriorità, tra realtà ed apparenza, scompare definitivamente la linea di demarcazione tra attività e passività. L'uomo della modernità non è più in grado di partecipare attivamente al gioco della vita, di incidere con la propria creatività in un mondo che ormai è diventato ipertecnologico. La sua forza sta nella adattabilità a tale struttura, sottrarvisi vorrebbe dire morire. Risultato di tutto ciò è un essere che ha perso la facoltà del pensare, delegandola ad automi sempre più intelligenti e antropomorfizzati, a differenza invece dell'uomo stesso che coinvolto in questo meccanismo perverso ha indebolito le proprie facoltà intellettive.
Se la scienza assume ora il compito e le funzioni della metafisica pur rivendicando la sua emancipazione dall’essere divino cartesiano e dalla tradizione razionalista e avviene la coincidenza tra interiorità e esteriorità, il problema diventa quello della significatività.
Heidegger lo propone in quanto l’uomo è un chi, una “esistenza” (existenz) e il suo modo di essere è “essere nel mondo” come apertura ad esso. Il Da-sein, l’esser-ci, è nel senso di essere aperto e di essere l’apertura al mondo. Il modo con cui il Dasein si apre al mondo è la significatività. Aperto originariamente al mondo tramite i modi esistenziali della situazione emotiva, della comprensione e del discorso, l’uomo gode della comprensione dell’essere dell’ente ed è in base ad essa che pone in questione il proprio essere. Egli si scopre gettato nel “ci” dell’apertura, mentre la comprensione è proiezione attiva, è progetto o interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa, cioè in quanto rinvia ad altro nella rete di significatività del mondo. La “cura” è l’essere del Da-sein umano, l’unità di esistenzialità (progetto) che insieme alla significatività del mondo ne segna la finitezza, riscoprendo il suo essere ogni volta assegnato al mondo e dipendente da esso. Il modo di essere imperfetto però del Dasein stesso fa decadere l’uomo dal proprio autentico poter essere se stesso nel mondo quotidiano. Il percorso suggerito dal filosofo per un’esistenza autentica dell’uomo è di assumere la morte come apertura dell’esserci alle altre possibilità in modo autentico: precorrendo la morte l’esserci non si chiude in una situazione definitiva, ma assume se stesso come eterno poter essere, divenire, ponendosi di fronte alle infinite possibilità che la realtà gli offre, scegliendo responsabilmente di fronte ad esse, senza irrigidirsi nelle scelte che opera.
Nell’ontologia heideggeriana interiorità ed esteriorità ritrovano dunque una dignità reciproca e si separano, mantenendo i legami.
Secondo il linguaggio heideggeriano, Dave compie il suo viaggio, sceglie di rifiutare la condizione passiva dell’essere gettato nel mondo per precorrere la morte e riscoprire la propria autenticità.
Solo allora la sua anima può ritornare a rispecchiarsi nella terra, ritornare grande e immensa, come lo era al momento della sua nascita, quanto l’universo che la circonda.
La figura del monolito e gli “shock” dell’opera cinematografica chiamano continuamente in causa lo spettatore, invitandolo attraverso l’esperienza del film, a distogliersi dalla molteplicità dei fenomeni per ritrovare la significatività, elemento a cui sembra rivolgersi il gesto della deissi finale, il dito proteso e indicante il monolito.
Richiamare in causa la soggettività dell’uomo significa riaprire l’orizzonte della significatività all’intenzionalità e alla progettualità della coscienza.
Attraverso il film siamo continuamente spinti a superare l’analisi e l’ordine dei fenomeni, per ritrovare la necessità di un recupero degli universali, che la scienza moderna ha negato attraverso il suo materialismo e determinismo. Scrive Husserl: “L’esclusività con cui nella seconda metà del secolo XIX, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla “prosperity” che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”.
L’idea di una metafisica quantitativa cartesiana e della creazione di una filosofia trascendentale di stampo kantiano, ripresa successivamente dalla fenomenologia di Husserl, rinnovano i dubbi e i rischi moderni di una scienza che rivendica la propria possibilità di risolvere nell’orizzonte di un panorama sempre rivolto al reale e al concreto i temi sull’essere e sul vero.
Dave, unità di Kubrick con lo spettatore, è anche unità con tutti gli uomini autentici. Gli interrogativi di Dave e di Kubrick stesso diventano ricerca dell’autenticità per lo spettatore. L’uomo-spettatore è costretto a rifiutare la sua funzione spettatrice, è chiamato in causa direttamente in quanto è essere umano che ha la strada aperta per porsi l’interrogativo della sua autenticità. E ancora una volta domande e risposte restano aperte sull’umano e sul mondo.
Bibliografia
1. Walter Benjamin, Angelus Novus
2. M acrobio, Commentariorum in Somnium Scipionis libri duo, Padova 1981, Libro I §12
3. U. Galimberti, Psiche e teche, p.644, Feltrinelli ed.2000
4. L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico, Vol. II, pag284, ed A. Garzanti 1970
5. U. Galimberti, Psiche e teche, p.646, Feltrinelli ed.2000
6. M. Chion, Un’odissea nel cinema. Il 2001 di Kubrick, Lindau ed.2000
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