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UN CESSO ALLAGATO E LE SBARRE ALLE FINESTRE ERA LA MIA NUOVA STANZA...

ESCE LA BIOGRAFIA DI TONI NEGRI

«Che eroi quegli avvocati: garantisti ingenui ma lottatori generosi»

Un estratto di “Galera ed esilio. Storia di un comunista” Girolamo De Michele e Toni Negri, Ponte alle grazie, pp. 448 -, autobiografia di Toni Negri, ex leader di Autonomia Operaia.



LA CELLA

«Questa è la sua camera» gli dice il maresciallo facendolo entrare nello stanzone: cinque metri per cinque al pianterreno del carcere. Lettino carico di coperte in angolo, lavandino di ferro arrugginito sulla parete di faccia, bugliolo a lato. La finestra con un vetro rotto davanti all’inferriata di sbarre. La prima cosa che fa un coatto quando entra in una cella vuota: la esplora. Ne misura a lunghi passi lunghezza e larghezza, verifica l’altezza con un piccolo salto col braccio teso, batte col tacco il pavimento e con le nocche le pareti per tentate imperfezioni murarie nascoste; infine si volge alla finestra e ne accarezza le sbarre, sornione. Appena arrivato in un carcere il coatto ti dice in quale braccio e a che piano e quante celle ci sono da un lato e dall’altro: questo esame dovrebbe stabilire se vi è, o meno, una possibilità di evadere. Probabile che finga: i coatti sono bugiardi – questo Toni lo apprende più tardi, quando anche lui, con minore esattezza ma sufficiente approssimazione, avrà misurato la sua nuova cella mimando quei movimenti. Ma la sera del suo arresto, quando arriva nel carcere di Rovigo, Toni non ha il garbo del coatto nel controllare la situazione: aveva un’immagine assai generica dell’ospitalità carceraria, reagisce protestando con timidezza e, senza svestirsi, si butta sul letto caricandosi addosso tutte le coperte: teme gli effetti dell’umidità del luogo e dell’aria fredda che, entrando dal vetro rotto, gli sbatte addosso. Non ha voglia di pensare: comincia a contare le pecore per addormentarsi. È ' stordito, non impaurito: ha dimenticato il mandato di cattura che gli avevano letto otto ore prime. Continua a contare le pecore in ordine inverso: cento, novantanove, novantotto... Il sonno non viene, il rubinetto gocciola: si alza in piedi lottando con le coperte, il pavimento è sudicio, scivoloso, il rubinetto non si chiude; piscia nel bugliolo, stupito del rumore che fa. Dopo alcune ore entra un gruppo di guardie, Toni fa per alzarsi: «Stai, stai» dice il caporione, mentre un’altra guardia fa un rumore infernale verificando l’inferriata, percorrendola con una sbarra di ferro... sì, è intatta. Escono sbattendo la porta: Toni si addormenta. Quando lo arrestarono e fu portato in auto da Milano a Rovigo, e passarono al tramonto accanto ai colli Euganei, Toni, guardando quei colli che aveva amato, si disse, chissà perché: «Non tornerò più a vederli... ciao Padova». Qualche anno dopo un amico gli disse: «Tornerai, e un giorno via 8 febbraio sarà chiamata via 7 aprile».

ORRORE

Il mattino il maresciallo riceve Toni: gli chiede come si sente. Toni si informa sulla possibilità di incontrare avvocati e famiglia: dice che presto gli farà sapere. Toni è del tutto spaesato, ma trova il modo di chiedergli – con ironia – quanto tempo debba passare perché possa mostrare la propria innocenza: il maresciallo si è mai trovato dinnanzi a una situazione simile? Il maresciallo gli racconta di un innocente vero – lo sottolinea con forza – rimasto in carcere alcuni anni prima che i giudici potessero liberarlo: la burocrazia, sa, professore... Poi gli chiede se ha da leggere; a risposta negativa lo accompagna in uno stanzone – si vede la polvere nell’aria rischiarata delle fasce di luce dalle finestre socchiuse. Sulla porta c’è scritto Biblioteca: qualche centinaio di libri accatastati qua e là, molti lasciati dai vecchi inquilini. Toni cerca fra la robaccia: scova un’edizione completa del teatro di Shakespeare e se la porta in cella. Non è triste né spaventato: ' indignato, forse. È confuso nel cercare di capire che cosa succederà, non sa ancora che c’è stata una retata, e non può immaginarne la portata e le proteste che ha scatenato. Il giorno dopo gli fanno prendere l’aria in un cortiletto dell’edificio della direzione del carcere; passeggia con lui un maturo carabiniere in borghese che puzza di polizia politica ( perché un carabiniere e non una guardia carceraria?). Si chiacchiera del più e del meno, Toni gli chiede del Milan, quattro parole e basta. A un certo punto una radio locale rompe il silenzio della passeggiata – tre ragazzi sono saltati in aria a Thiene, mentre preparavano una bomba: volevano protestare contro il rastrellamento del 7 aprile. Il carabiniere osserva Toni che tira diritto trattenendo l’orrore, schiacciandolo nel petto. Rientra nello stanzone che funge da cella, piange: è la prima volta, e sarà l’ultima. Continua a leggere Shakespeare.

KAFKA O SHAKESPEARE?

Sentirà dire mille volte che gli eventi iniziati il 7 aprile ’ 79, quando lui e i suoi compagni furono accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, furono una vicenda kafkiana: una serie di fatti dal principio inventata nell’assurdo, che sembrò poi insolubile tanto fu pasticciata. Una vicenda burocratica girata male, un imbroglio giuridico mal gestito da giudici d’assalto, come allora erano chiamati i magistrati che, a loro dire, difendevano le istituzioni dall’attacco terrorista e, a dire dei vecchi magistrati, facevano confusione quando non facevano danni.

Una storia alla Kafka, insomma: si entra nel Castello e non se ne esce più, intrappolati da una colpa assurda causata da giudici oscuri e meccanici, e riprodotta nella coscienza degli accusati che di quella condizione si fanno essi stessi prigionieri. Può darsi: apparve tale anche a Toni, nei primi giorni. Ma ci volle poco per chiarirsi le idee: davvero quelle immagini letterarie non erano adatte a descrivere la situazione, ci voleva ben altro. La vicenda che gli toccava non era burocratica, ma del tutto politica: non macchina insensata ' ma tragedia nel politico – Shakespeare, non Kafka. Si trovava a combattere una lotta aperta, non un destino; il nemico era quello Stato che si diceva invincibile – ma Toni non lo sentiva tale: perché fingerlo imbattibile? Non era appunto lo Stato che aveva sempre combattuto da quando era diventato comunista, misurandone talora falle e debolezze – e sempre l’ingiustizia? Quante volte, per fargli paura, gli avevano raccontato che lo Stato era sovrano, che in esso agiva la necessità dell’ordine civile: una forza laicizzata dai moderni, ma sempre fondata nell’assoluto? E, per imporgli l’obbedienza: che il potere burocratico era la razionalità di quel potere? Quante idiozie!, reagiva il professore di Dottrina dello Stato: qui c’è un potere nemico. Non trascendenza ma immanenza, non giustizia ma vio-TONI lenza, non diritto ma imbroglio: il potere del nemico di classe, del PCI e della DC, l’espressione del compromesso storico. Toni ricordava un vecchio dicton di Guido Bianchini: «Per i comunisti la tragedia non è un destino ma una lotta». Dunque bisognava battersi, denunciare le ingiustizie, il colpo di mano politico. Ma che cosa era accaduto davvero? Nel mandato di cattura c’era scritto «insurrezione» : ma non c’era scritto con chi l’avesse promossa, e non gli sembrava d’averla fatta, e gli sembrava impossibile averla fatta da solo. Un Kafka che gira a vuoto: un Kafka reso comico?

NEMICO PUBBLICO

Lo portano a Padova per un primo interrogatorio. Pietro Calogero legge l’accusa da un pezzo di carta che ripete la motivazione del mandato di cattura: gli contesta il reato di «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», di essere il massimo dirigente delle Brigate Rosse, e di aver partecipato, in quanto tale, al rapimento e all’assassinio dell’onorevole Aldo Moro e della sua scorta. Insieme a lui sono stati arrestati docenti e assistenti dell’Istituto di Scienze politiche dell’Università di Padova, che allora Toni dirigeva, nonché altri intellettuali a Roma, Torino, Milano, che avevano partecipato in varia misura all’antica
esperienza di Potere Operaio. La tesi delle Procure di Padova e di Roma è quella di una ininterrotta continuità di direzione del movimento terroristico fra il 1968 e il 1979, attribuita a Toni e ai suoi collaboratori universitari: le BR sono considerate un’appendice, il braccio armato di una direzione di intellettuali che risiedeva nell’Istituto di Scienze politiche dell’Università di Padova. Quanto a Toni, a dimostrazione della sua diretta partecipazione al rapimento dell’onorevole Moro viene allegata la registrazione di una decisiva telefonata, durante il rapimento, alla famiglia dello statista, della quale Toni è riconosciuto autore. Dopo qualche settimana comparirà anche un testimone che lo riconoscerà come partecipe alla strage di via Fani. Data la gravità dei reati contestati, in particolare del reato di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, il processo sarà trasferito da Padova a Roma. Calogero legge il mandato di cattura e se ne va: l’interrogatorio è finito – dieci minuti, non uno di più! Il Corriere titola, senza ritegno alcuno: «Negri interrogato per cinque ore». Toni rivedrà Calogero, la seconda volta, dopo quattro anni e mezzo mentre sta per uscire di galera, nel giorno stesso in cui è eletto in Parlamento.
Per quattro anni e mezzo in contatto per corrispondenza: l’inquisitore, rinnovando i mandati di cattura ogni sei mesi, e ogni altra volta che lui e la sua banda di consiglieri politici e volpi mediatiche considerano utile per dare un nuovo colpo di pennello alla tavolozza della «campagna antiterrorista» ; Toni, dandogli dell’imbroglione su ogni foglio di giornale che gli fosse concesso di utilizzare. Per quattro anni di galera preventiva Toni non ha visto il giudice accusatore: aveva, il buon Calogero, paura di incontrarlo? Non doveva almeno proporgli delle contestazioni e chiedergli delle spiegazioni o delle riposte? E invece rimane assente, clandestino, chiuso in qualche ufficio blindato a dare testimonianza del suo teorema: che se teorema era, non se ne poteva chiedere verifica ad altri che all’autore, questo pseudo- geometra che ha dedicato una vita all’ingiustizia.
AVVOCATI
Domanda: è meglio non avere avvocati? Chi non sia dentro un processo politico non può immaginarlo. Lo penseranno invece spesso, Toni e i suoi compagni: a che scopo averne, se il gioco era fin da principio truccato e si distribuivano solo carte false? Ci si chiedeva se, almeno, gli avvocati servissero ad addolcire la galera; qualche volta avveniva: qualche trasferimento più vicino a casa, permessi per ricevere più libri di quanto ammesso di norma, qualche colloquio familiare in più – ma è tutto qui. Qualcuno fra gli avvocati si illudeva, o fingeva d’esser capace, di assicurare la verità e di costringere i giudici al fair play del gioco penalista: erano i più giovani, e erano questi i nostri difensori più pericolosi: dannosi come quei garantisti che di continuo si facevano sentire denunciando storture e infamie del processo e della carcerazione preventiva – bravi, elogio a voi! Come se il problema stesse lì. Aggrapparsi alla Costituzione della Repubblica per difenderci era una pratica generosa ma inutile: a fronte di quella «formale» c’era una costituzione «materiale», un accordo fra le forze politiche della conservazione, sul cui fondamento era stata sviluppata l’inchiesta 7 aprile.
Appellarsi alla Costituzione, al diritto, alla giustizia era pura illusione: di fronte a uno di loro non capivi mai se fosse ingenuo o ipocrita. Negli anni dell’esilio o della perdurante galera, nel periodo di Mani Pulite, o alla nascita del berlusconismo, li avremmo visti moltiplicarsi, i garantisti – senza mai dare una mano alla nostra gente. Per noi era chiaro che non si dovessero avere avvocati ( troppo) garantisti. Giuliano Spazzali, primo fra i molti avvocati di Toni che si sarebbero avvicendati, era d’accordo: anche per lui l’unica difesa possibile, in un processo tessuto dalla ragion di Stato e con finalità distruttive degli avversarsi politici, non poteva che essere aggressiva, d’attacco. Una difesa che denunciasse la tessitura politica del processo e le forze che lo avevano organizzato. «Bisogna perciò consolidare la tua figura di prigioniero politico» gli diceva. Giuliano fu molto saggio nel consigliare a Toni di dar forza al modello «prigioniero politico» – soprattutto perché, dopo pochi mesi, caduta l’accusa di essere il «Grande Vecchio», gli accusatori avrebbero tentato di trascinarlo nella melma della criminalità comune.
Ma Toni era consapevole del fatto che il gioco fosse abbastanza illusorio ( e un po’ masochista): dopo tutto, prigioniero politico lui già lo era. Se la sola via d’uscita era politica, perché politicizzare il processo piuttosto che dissolverlo? Perché non affidarsi, come più tardi gli riuscirà, a forze extragiudiziarie, non per vincere il processo ma per evadere dal carcere? Ma attorno agli avvocati si accumulavano altre questioni. La definizione di una linea processuale e l’agire nelle mille pieghe del processo penale si complicavano, per i prigionieri, attorno alla cruciale e banale questione dei soldi. Era chiaro che gli imputati del 7 aprile non avrebbero potuto pagare la massa di lavoro che esigeva una difesa puntuale, costretta di lì a poco a enormi spostamenti fisici dal nord al sud del paese, quando gli imputati del 7 Aprile furono disseminati nelle carceri speciali di tutto lo stivale. L’acquisto di atti in quantità enormi e costi gravosi; viaggi e tempo per affrontare un insieme di argomenti di difesa inusuali, che esigevano gran dispendio di analisi e di studio; e ancora, condizioni proibitive di incontro con i carcerati, difficoltà nel rapporto con i giudici, fino alla minaccia di esser considerati complici dei loro difesi – come potevamo pretendere che facessero più di quel poco che riuscivano a fare?
Insomma, finirono per essere tanto inutili quanto da principio sospettavamo: e tuttavia gli avvocati del 7 aprile furono degli amici, dei generosi lottatori, talvolta degli eroi di dedizione professionale.

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