La nostra vita nella rete: così noi umani stiamo mutando
ALBERTO ABRUZZESE
Grazie ad alcuni episodi salienti, chi in questi giorni abbia navigato in rete ha sicuramente avuto la prova di quanto l’ambiente umano - pur così trasformato ovvero passato al di là della propria forma abituale - incontri ancora non poche difficoltà nell’interpretare la progressiva trasmutazione dei valori in gioco nel qui e ora del nostro futuro. Dunque nel dare un senso alla progressiva smaterializzazione che – definita falsificazione dai più affetti di ideologia – iniziò a farsi manifesta con la fotografia e infine è oggi culminata nei linguaggi digitali. Nel nostro farci mondo digitale: intricato mondo di reti che generano sempre altre reti e i nuovi loro nodi.
Provo a fare qualche esempio ( e in futuro cercherò di continuare a farlo trasferendo sulle pagine di questo giornale la mia personale esperienza dentro Facebook).
Innanzi tutto una considerazione preliminare: affermando di volere ragionare “sulla” vita in rete, mi viene da domandarmi e domandarvi se non sia invece più giusto dire “nella” vita in rete. Potrebbe sembrare un problema futile, di lana caprina, ma a me pare che nella prima scelta – ovvero “sulla” – ancora si manifesti automaticamente l’abitudine a una vecchia postura culturale. Infatti, se dico “sulla”, mi metto a distanza dalla vita di rete, in qualche modo me ne sento fuori, parlo come abitante di una vita passata, separata e distinta dalla vita di rete, mentre invece se dico “nella” questo significa che sono del tutto trapassato, entrato nell’esperienza digitale, e quindi la considero la mia vita, la forma stessa del mio vivere.
LA SCUOLA
Primo esempio: la discussione che ha fatto seguito allo scandalo sulle qualifiche – attrattive o respingenti a seconda delle parti sociali – date ai singoli istituti scolastici in base alla composizione socio- antropologica delle loro classi didattiche. La constatazione dei problemi, in verità oggettivi, che si creano in classi ' miste' ( e a tale proposito sarebbe interessante riandare a pescare le polemiche sicuramente insorte con la scelta ormai lontana di classi miste dal punto di vista del sesso), a me pare dominata dalla domanda sugli effetti positivi o negativi causati dalla concentrazione in una stessa aula di ragazzi fortemente diversi per ceto e cultura ( almeno presunta) oppure, con altro ordine di problemi, dall’inserimento di ragazzi diversi per “abilità” fisica e cognitiva. Lo stesso dilemma si propone a maggior ragione con la più radicale costruzione di classi ghetto, da un lato, e classi d’élite dall’altro. Il punto cruciale della discussione verte sulla scelta di due paradigmi sociali opposti: quello teso a sostenere che proprio le profonde differenze fruttano lo sviluppo culturale del gruppo e di contro quello teso a sostenere che lo rallentano. Dunque, due paradigmi: l’uno sensibile al costo ( calo di produzione e profitto) di una socializzazione troppo orizzontale, l’altro sensibile invece ai vantaggi economici e politici di una socializzazione verticale. Due paradigmi che da sempre convivono in modo conflittuale nelle tradizioni democratiche e nelle loro teorie pedagogiche e formative.
E qui sta il punto: paradossalmente c’è del vetero o piuttosto neo- classismo in tutte e due le scelte: quella “aperta” e quella “chiusa”. Si tratta infatti di strategie che restano in ogni caso obbligate nello spazio fisico dell’aula. Nel recinto delle sue mura. Ogni aula nasce così – localmente e insieme secondo scelte nazionali – dalla scomposizione e ricomposizione, tendenzialmente strumentale e arbitraria, dei reali livelli di acculturazione della popolazione giovanile in quanto massa di singole persone. Per risolvere gli ovvi scompensi e conflitti interni, al massimo si ricorre al senso di responsabilità degli insegnanti ( quell’approccio inclusivo che in aule con disabili viene definito ' di sostegno') e al sapere didattico e formativo di quanti tra gli stessi insegnanti abbiano potuto, saputo e voluto acquisirlo negli anni. E’ quindi impressionante l’arretratezza concettuale e di fatto pratica con cui si pretende di affrontare l’ordine di problemi, ripeto affatto pretestuosi ma reali, che si creano in aule sempre più miste o sempre più omogenee nella loro composizione.
Così, anche quando viene auspicato un effettivo ingresso dell’innovazione digitale nelle scuole, mi pare che la sensibilità istituzionale sia orientata verso un salto di qualità sul piano astratto del sapere tecno- scientifico piuttosto che su quello concreto delle umane condizioni di vita dei ragazzi. Il nuovo mezzo viene introdotto nelle aule senza pensare prioritariamente al nodo cruciale – da non rimuovere con salti in avanti poco maturati e poco metabolizzati – che fare entrare i giovani nell’economia espressiva delle reti possa, debba, essere l’unico modo reale per superare e insieme salvaguardare la natura irriducibile dei conflitti personali che si producono dentro lo spazio fisico delle aule.
IL LINGUAGGIO
Secondo esempio: molti sostengono non senza ragione che, almeno tendenzialmente, nella rete si manifestino, a differenza dei precedenti mass media storici, ondate di una ancora relativa capacità di omologazione collettiva dal basso. Lo è nella semplicità di un linguaggio che tuttavia non si può dire nemmeno più “popolare” perché va sviluppandosi piuttosto come un “gergo” o una sorta di lingua “volgare” maturata nella esperienza digitale, nelle sue pratiche territoriali. Ma questo dialetto post- nazionale non sembra esprimere contenuti omogenei, tutt’altro. E dunque ci si accorgerà – ma forse già ci siamo – che lo stile dei messaggi si sta facendo ancora una volta contenuto. Identità. Ad esempio è della gente ' comune' e ' istintiva' – poco educata – un dialogare in rete fortemente diviso tra pareri accesamente opposti e espressi senza alcuna buona maniera, che dunque la fanno finita – finalmente? – con le buone maniere in passato maturate tra i ceti medi e la loro ipocrisia piccolo- borghese. Ma al contempo sempre più accade di leggere parole violente, tendenti al vituperio verso l’altro, a reazioni istintive di esclusione – quindi omologabili al vecchio “razzismo” di colore o di ceto o di ruolo – anche in persone aperte, civilissime, per di più soggetti nativi e militanti in linguaggi e contenuti digitali. La qual cosa sembrerebbe davvero un controsenso, almeno rispetto alle passate credenziali di innocenza di cui la cultura ha sempre goduto, per diritto divino, rispetto agli incolti e ai semplici. Che stile e contenuti dell’essere umano siano faccenda ben più profonda e terribile degli stili e contenuti dei corpi sociali in cui sono stati o si sono arruolati?
Ci affascinò agli albori delle reti l’idea di avere iniziato a navigare. Liberi ciascuno sulla propria zattera. A volere continuare a parlare di forme dell’acqua, s’assiste ora a lunghe ondate che insorgono dal grande mare delle reti, dalle sue infinite minute increspature, e montano sino a diventare cavalloni. La loro potenza d’urto è proporzionale alla forza di semplificazione e riduzione di ogni altra volontà personale o organizzata. Se ne temono gli effetti almeno quanto alcuni attori sociali sperano di poterne godere a svantaggio di altri. Molti imputano queste intemperanze della rete alla estrema semplicità delle sue piattaforme comunicative: una semplicità che corrisponde alla semplicità con cui le armi scattano appena sfiorate.
Tuttavia da un punto di vista qualitativo non mi pare proprio che le relazioni di rete si connotino soltanto per ' semplicità nell’accesso e nella comprensione'. E questo non soltanto perché non son prive di baratri o impennate del linguaggio colto o specialistico o elitario, ma anche perché, a leggere i fraseggi più semplici e ordinari, non è poi che il loro linguaggio appaia e sia a sua volta del tutto trasparente: l’impeto dei ' semplici' fa sì che essi scarseggino in esplicitazione e motivazione delle loro premesse e dei loro riferimenti, creando così, per troppa semplicità e semplificazione, non poche difficoltà di interpretazione nel lettore della loro stessa “fabula”. Esattamente come il dialogare tra sé e sé dei colti si fa ostico – a volte persino a fronte dei propri simili – per la troppa complessità delle loro stesse radici.
Insomma su Internet ci sono ancora buone occasioni di crescere come singole persone prima che Babele sia compiuta, portata a termine, ma esattamente nello stesso istante abbattuta a terra. Riconsegnata al fango da cui nacque la natura vivente. Forse l’umanità si trova sull’ultima spiaggia di quell’attimo unico e irripetibile in cui – paradossalmente solo grazie all’illusione di essere stata proprietaria della propria specifica ed esclusiva dote di linguaggio universale – si accorge finalmente di non sapere parlare, di non avere mai parlato la lingua dell’altro, del suo vicino, del suo più prossimo essere vivente. Sta qui la realtà più interessante dei dis- umani discorsi che vanno crescendo in reciproca connessione tra l’internet delle cose, l’intelligenza artificiale e il post- umano.
FAKENEWS
Terzo esempio. Ricorro per questo ad alcuni passaggi che mi hanno interessato nella discussione apertasi sul diario FB di
Giovanni Boccia Artieri – tra i più attenti e militanti sociologi della società delle reti – a proposito del “falso” caso del ragazzo sorpreso senza biglietto su un treno Freccia Rossa e quindi della eccezionale audience virale di cui questo “minimo” evento ha a lungo goduto per effetto del sempre più selvaggio scontro in atto tra italiani schierati contro oppure in difesa dei diritti umani dei profughi ( o – dato che non si concede loro lo statuto di soggetti – sarebbe meglio dire: della loro carne). Andate a leggere gli interventi e vedrete che in alcuni suoi passaggi è venuta fuori una definizione dell’odio come risultato delle logiche del consumo, dunque del mercato e quindi della tecnologia e del capitalismo. Essere marxiani serve a questo, ad avere questa intelligenza del potere.
Insomma: l’odio – l’oggetto, il manufatto odio – si merita a pieno titolo la stessa definizione applicata alla qualità delle merci ( un tempo in vetrina e oggi sugli schermi digitali) da Walter Benjamin e decenni dopo rilanciata da Mario Perniola, tra i più accesi contestatori italiani della natura simulacrale e idolatrica dei media: sex appeal dell’inorganico.
La definizione è giusta, ma nella discussione sono emerse due interpretazioni, una più morbida e una più radicale. Una ancora umanistica e una che suggerisce di sottrarsene in modo netto e irrevocabile. La prima ha per base la convinzione – è la credenza occidentale, la fede ciclicamente perseguita dalla civilizzazione – che vi sia una naturale e cioè possibile perché innata distinzione e dunque differenza qualitativa tra l’uomo in sé e l’uomo della tecnica. La seconda interpretazione sostiene che l’intera storia del progresso umano per mezzo ( la tecnica) dell’umano dimostra – oggi più che mai – che ogni valore umanistico, ogni principio speranza e destino salvifico, ha sempre fatto da copertura alle più atroci azioni umane. Al più irredimibile dolore dei corpi e della carne delle persone. Insomma la “falsa coscienza” umana non va evocata a fronte dei mali della civiltà delle macchine e del capitale, ma a fronte di se stessa e dunque alle inemendabili condizioni di violenza e insieme falsificazione che ogni società impone per sopravvivere a se stessa. So bene che un discorso come questo può peccare di semplificazione ma proprio di semplificazione ha bisogno la complessità che il mondo ha raggiunto e che le reti stanno rivelando come mai prima è riuscito a qualsiasi altro linguaggio. Con il vantaggio, credo, di non dare voce a una critica troppo elementare e al tempo stesso classica del presupposto imbarbarimento che ogni fase di passaggio della civiltà occidentale ha attribuito alla sua stessa evoluzione, al suo stesso sviluppo tecnologico, questa seconda interpretazione tiene fermo un punto irrevocabile: il padrone delle reti non è il capitalismo ( neppure quello in transizione dalle sue doti democratiche, storiche, alla sua attuale dissipazione finanziaria, antistorica, antidemocratica), ma è, sempre da prima e sempre di nuovo, l’essere umano; la rete ne sta semplicemente affinando e dunque rivelando la propria più autentica natura.
IL PADRONE DELLE RETI NON È IL CAPITALISMO MA È, SEMPRE DA PRIMA E SEMPRE DI NUOVO, L’ESSERE UMANO; LA RETE NE STA SEMPLICEMENTE AFFINANDO E DUNQUE RIVELANDO LA PROPRIA PIÙ AUTENTICA NATURA
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ALBERTO ABRUZZESE
Grazie ad alcuni episodi salienti, chi in questi giorni abbia navigato in rete ha sicuramente avuto la prova di quanto l’ambiente umano - pur così trasformato ovvero passato al di là della propria forma abituale - incontri ancora non poche difficoltà nell’interpretare la progressiva trasmutazione dei valori in gioco nel qui e ora del nostro futuro. Dunque nel dare un senso alla progressiva smaterializzazione che – definita falsificazione dai più affetti di ideologia – iniziò a farsi manifesta con la fotografia e infine è oggi culminata nei linguaggi digitali. Nel nostro farci mondo digitale: intricato mondo di reti che generano sempre altre reti e i nuovi loro nodi.
Provo a fare qualche esempio ( e in futuro cercherò di continuare a farlo trasferendo sulle pagine di questo giornale la mia personale esperienza dentro Facebook).
Innanzi tutto una considerazione preliminare: affermando di volere ragionare “sulla” vita in rete, mi viene da domandarmi e domandarvi se non sia invece più giusto dire “nella” vita in rete. Potrebbe sembrare un problema futile, di lana caprina, ma a me pare che nella prima scelta – ovvero “sulla” – ancora si manifesti automaticamente l’abitudine a una vecchia postura culturale. Infatti, se dico “sulla”, mi metto a distanza dalla vita di rete, in qualche modo me ne sento fuori, parlo come abitante di una vita passata, separata e distinta dalla vita di rete, mentre invece se dico “nella” questo significa che sono del tutto trapassato, entrato nell’esperienza digitale, e quindi la considero la mia vita, la forma stessa del mio vivere.
LA SCUOLA
Primo esempio: la discussione che ha fatto seguito allo scandalo sulle qualifiche – attrattive o respingenti a seconda delle parti sociali – date ai singoli istituti scolastici in base alla composizione socio- antropologica delle loro classi didattiche. La constatazione dei problemi, in verità oggettivi, che si creano in classi ' miste' ( e a tale proposito sarebbe interessante riandare a pescare le polemiche sicuramente insorte con la scelta ormai lontana di classi miste dal punto di vista del sesso), a me pare dominata dalla domanda sugli effetti positivi o negativi causati dalla concentrazione in una stessa aula di ragazzi fortemente diversi per ceto e cultura ( almeno presunta) oppure, con altro ordine di problemi, dall’inserimento di ragazzi diversi per “abilità” fisica e cognitiva. Lo stesso dilemma si propone a maggior ragione con la più radicale costruzione di classi ghetto, da un lato, e classi d’élite dall’altro. Il punto cruciale della discussione verte sulla scelta di due paradigmi sociali opposti: quello teso a sostenere che proprio le profonde differenze fruttano lo sviluppo culturale del gruppo e di contro quello teso a sostenere che lo rallentano. Dunque, due paradigmi: l’uno sensibile al costo ( calo di produzione e profitto) di una socializzazione troppo orizzontale, l’altro sensibile invece ai vantaggi economici e politici di una socializzazione verticale. Due paradigmi che da sempre convivono in modo conflittuale nelle tradizioni democratiche e nelle loro teorie pedagogiche e formative.
E qui sta il punto: paradossalmente c’è del vetero o piuttosto neo- classismo in tutte e due le scelte: quella “aperta” e quella “chiusa”. Si tratta infatti di strategie che restano in ogni caso obbligate nello spazio fisico dell’aula. Nel recinto delle sue mura. Ogni aula nasce così – localmente e insieme secondo scelte nazionali – dalla scomposizione e ricomposizione, tendenzialmente strumentale e arbitraria, dei reali livelli di acculturazione della popolazione giovanile in quanto massa di singole persone. Per risolvere gli ovvi scompensi e conflitti interni, al massimo si ricorre al senso di responsabilità degli insegnanti ( quell’approccio inclusivo che in aule con disabili viene definito ' di sostegno') e al sapere didattico e formativo di quanti tra gli stessi insegnanti abbiano potuto, saputo e voluto acquisirlo negli anni. E’ quindi impressionante l’arretratezza concettuale e di fatto pratica con cui si pretende di affrontare l’ordine di problemi, ripeto affatto pretestuosi ma reali, che si creano in aule sempre più miste o sempre più omogenee nella loro composizione.
Così, anche quando viene auspicato un effettivo ingresso dell’innovazione digitale nelle scuole, mi pare che la sensibilità istituzionale sia orientata verso un salto di qualità sul piano astratto del sapere tecno- scientifico piuttosto che su quello concreto delle umane condizioni di vita dei ragazzi. Il nuovo mezzo viene introdotto nelle aule senza pensare prioritariamente al nodo cruciale – da non rimuovere con salti in avanti poco maturati e poco metabolizzati – che fare entrare i giovani nell’economia espressiva delle reti possa, debba, essere l’unico modo reale per superare e insieme salvaguardare la natura irriducibile dei conflitti personali che si producono dentro lo spazio fisico delle aule.
IL LINGUAGGIO
Secondo esempio: molti sostengono non senza ragione che, almeno tendenzialmente, nella rete si manifestino, a differenza dei precedenti mass media storici, ondate di una ancora relativa capacità di omologazione collettiva dal basso. Lo è nella semplicità di un linguaggio che tuttavia non si può dire nemmeno più “popolare” perché va sviluppandosi piuttosto come un “gergo” o una sorta di lingua “volgare” maturata nella esperienza digitale, nelle sue pratiche territoriali. Ma questo dialetto post- nazionale non sembra esprimere contenuti omogenei, tutt’altro. E dunque ci si accorgerà – ma forse già ci siamo – che lo stile dei messaggi si sta facendo ancora una volta contenuto. Identità. Ad esempio è della gente ' comune' e ' istintiva' – poco educata – un dialogare in rete fortemente diviso tra pareri accesamente opposti e espressi senza alcuna buona maniera, che dunque la fanno finita – finalmente? – con le buone maniere in passato maturate tra i ceti medi e la loro ipocrisia piccolo- borghese. Ma al contempo sempre più accade di leggere parole violente, tendenti al vituperio verso l’altro, a reazioni istintive di esclusione – quindi omologabili al vecchio “razzismo” di colore o di ceto o di ruolo – anche in persone aperte, civilissime, per di più soggetti nativi e militanti in linguaggi e contenuti digitali. La qual cosa sembrerebbe davvero un controsenso, almeno rispetto alle passate credenziali di innocenza di cui la cultura ha sempre goduto, per diritto divino, rispetto agli incolti e ai semplici. Che stile e contenuti dell’essere umano siano faccenda ben più profonda e terribile degli stili e contenuti dei corpi sociali in cui sono stati o si sono arruolati?
Ci affascinò agli albori delle reti l’idea di avere iniziato a navigare. Liberi ciascuno sulla propria zattera. A volere continuare a parlare di forme dell’acqua, s’assiste ora a lunghe ondate che insorgono dal grande mare delle reti, dalle sue infinite minute increspature, e montano sino a diventare cavalloni. La loro potenza d’urto è proporzionale alla forza di semplificazione e riduzione di ogni altra volontà personale o organizzata. Se ne temono gli effetti almeno quanto alcuni attori sociali sperano di poterne godere a svantaggio di altri. Molti imputano queste intemperanze della rete alla estrema semplicità delle sue piattaforme comunicative: una semplicità che corrisponde alla semplicità con cui le armi scattano appena sfiorate.
Tuttavia da un punto di vista qualitativo non mi pare proprio che le relazioni di rete si connotino soltanto per ' semplicità nell’accesso e nella comprensione'. E questo non soltanto perché non son prive di baratri o impennate del linguaggio colto o specialistico o elitario, ma anche perché, a leggere i fraseggi più semplici e ordinari, non è poi che il loro linguaggio appaia e sia a sua volta del tutto trasparente: l’impeto dei ' semplici' fa sì che essi scarseggino in esplicitazione e motivazione delle loro premesse e dei loro riferimenti, creando così, per troppa semplicità e semplificazione, non poche difficoltà di interpretazione nel lettore della loro stessa “fabula”. Esattamente come il dialogare tra sé e sé dei colti si fa ostico – a volte persino a fronte dei propri simili – per la troppa complessità delle loro stesse radici.
Insomma su Internet ci sono ancora buone occasioni di crescere come singole persone prima che Babele sia compiuta, portata a termine, ma esattamente nello stesso istante abbattuta a terra. Riconsegnata al fango da cui nacque la natura vivente. Forse l’umanità si trova sull’ultima spiaggia di quell’attimo unico e irripetibile in cui – paradossalmente solo grazie all’illusione di essere stata proprietaria della propria specifica ed esclusiva dote di linguaggio universale – si accorge finalmente di non sapere parlare, di non avere mai parlato la lingua dell’altro, del suo vicino, del suo più prossimo essere vivente. Sta qui la realtà più interessante dei dis- umani discorsi che vanno crescendo in reciproca connessione tra l’internet delle cose, l’intelligenza artificiale e il post- umano.
FAKENEWS
Terzo esempio. Ricorro per questo ad alcuni passaggi che mi hanno interessato nella discussione apertasi sul diario FB di
Giovanni Boccia Artieri – tra i più attenti e militanti sociologi della società delle reti – a proposito del “falso” caso del ragazzo sorpreso senza biglietto su un treno Freccia Rossa e quindi della eccezionale audience virale di cui questo “minimo” evento ha a lungo goduto per effetto del sempre più selvaggio scontro in atto tra italiani schierati contro oppure in difesa dei diritti umani dei profughi ( o – dato che non si concede loro lo statuto di soggetti – sarebbe meglio dire: della loro carne). Andate a leggere gli interventi e vedrete che in alcuni suoi passaggi è venuta fuori una definizione dell’odio come risultato delle logiche del consumo, dunque del mercato e quindi della tecnologia e del capitalismo. Essere marxiani serve a questo, ad avere questa intelligenza del potere.
Insomma: l’odio – l’oggetto, il manufatto odio – si merita a pieno titolo la stessa definizione applicata alla qualità delle merci ( un tempo in vetrina e oggi sugli schermi digitali) da Walter Benjamin e decenni dopo rilanciata da Mario Perniola, tra i più accesi contestatori italiani della natura simulacrale e idolatrica dei media: sex appeal dell’inorganico.
La definizione è giusta, ma nella discussione sono emerse due interpretazioni, una più morbida e una più radicale. Una ancora umanistica e una che suggerisce di sottrarsene in modo netto e irrevocabile. La prima ha per base la convinzione – è la credenza occidentale, la fede ciclicamente perseguita dalla civilizzazione – che vi sia una naturale e cioè possibile perché innata distinzione e dunque differenza qualitativa tra l’uomo in sé e l’uomo della tecnica. La seconda interpretazione sostiene che l’intera storia del progresso umano per mezzo ( la tecnica) dell’umano dimostra – oggi più che mai – che ogni valore umanistico, ogni principio speranza e destino salvifico, ha sempre fatto da copertura alle più atroci azioni umane. Al più irredimibile dolore dei corpi e della carne delle persone. Insomma la “falsa coscienza” umana non va evocata a fronte dei mali della civiltà delle macchine e del capitale, ma a fronte di se stessa e dunque alle inemendabili condizioni di violenza e insieme falsificazione che ogni società impone per sopravvivere a se stessa. So bene che un discorso come questo può peccare di semplificazione ma proprio di semplificazione ha bisogno la complessità che il mondo ha raggiunto e che le reti stanno rivelando come mai prima è riuscito a qualsiasi altro linguaggio. Con il vantaggio, credo, di non dare voce a una critica troppo elementare e al tempo stesso classica del presupposto imbarbarimento che ogni fase di passaggio della civiltà occidentale ha attribuito alla sua stessa evoluzione, al suo stesso sviluppo tecnologico, questa seconda interpretazione tiene fermo un punto irrevocabile: il padrone delle reti non è il capitalismo ( neppure quello in transizione dalle sue doti democratiche, storiche, alla sua attuale dissipazione finanziaria, antistorica, antidemocratica), ma è, sempre da prima e sempre di nuovo, l’essere umano; la rete ne sta semplicemente affinando e dunque rivelando la propria più autentica natura.
IL PADRONE DELLE RETI NON È IL CAPITALISMO MA È, SEMPRE DA PRIMA E SEMPRE DI NUOVO, L’ESSERE UMANO; LA RETE NE STA SEMPLICEMENTE AFFINANDO E DUNQUE RIVELANDO LA PROPRIA PIÙ AUTENTICA NATURA
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