“Spesso l’orrore va col diletto e un tragico fatto è un caro oggetto.”
Questa frase di Giovan Battista Marino, poeta del Seicento, sembra scritta per il nostro tempo. In poche parole, svela una verità inquieta e persistente: il tragico non respinge, attrae. E lo fa perché ci riguarda, ci scuote, ci costringe a sentire.
Il fascino del tragico: Caravaggio e la carne del dolore
Nel Seicento, il tragico era ovunque: nei teatri, nei poemi, nei quadri. Caravaggio ne è il portavoce visivo. I suoi martiri non sono idealizzati, ma vissuti. Il sangue è vero, la sofferenza è tangibile. Eppure, non distoglie lo sguardo: lo cattura. Perché in quel dolore c’è una verità che ci chiama.
Caravaggio non dipinge l’orrore per scandalizzare, ma per rivelare. E nel farlo, ci offre un diletto profondo: quello del pensiero, della compassione, della consapevolezza. Il tragico diventa “caro oggetto” perché ci fa crescere.
Oggi: tra estetica del dolore e bisogno di verità
Nel mondo digitale, il tragico è ovunque: serie TV, podcast, feed di notizie. True crime, distopie, guerre in diretta. C’è chi parla di morbosità, ma c’è anche un bisogno autentico: quello di sentire qualcosa di vero. In un’epoca anestetizzata, il tragico rompe la superficie.
Il diletto non è nel dolore in sé, ma nella sua intensità. È il piacere di essere toccati, di uscire dall’indifferenza. È il bisogno di capire, di elaborare, di confrontarsi con ciò che ci minaccia. Come nel Seicento, anche oggi il tragico è specchio dell’umano.
Il tragico come esperienza trasformativa
Guardare un quadro di Caravaggio, leggere una tragedia, ascoltare una testimonianza: tutto questo ci costringe a pensare. Il tragico ci mette in crisi, ci costringe a scegliere. E in questo, diventa “caro”: perché ci trasforma.
Il Seicento lo sapeva: l’orrore e il diletto non sono opposti. Sono complici. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di arte che non ci consoli, ma ci interroghi.
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