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Quegli intellettuali vigliacchi che non si ribellarono all’antisemitismo

LANFRANCO CAMINITI

Tanti tanti anni fa – stavo lavorando alla mia tesi di laurea sulla Sicilia dal 1943 al ’ 45, l’indipendentismo e quella roba lì – inciampai in un riferimento che mi straniò non poco: Finocchiaro Aprile, il leader indiscusso del Movimento indipendentista siciliano, scriveva al duce, lamentando che nonostante le leggi razziali quel tal professore, ebreo certificato, fosse ancora al proprio posto; e chiedeva perciò, vibratamente, che le cose venissero sanate, e quella cattedra venisse a lui assegnata, a lui che, come ogni documento poteva attestare, di pura razza italica era impastato.

Mi chiedevo come fosse possibile una tal bassezza – Finocchiaro Aprile, che dallo sbarco degli alleati era stato il più “americano” degli antifascisti siciliani e il più antifascista degli “americani” siciliani.

Fosse stato il bisogno – che ci fa commettere anche le azioni più terribili – avrei forse potuto capire; ma non poteva essere certo questa la motivazione per Finocchiaro Aprile, di famiglia non certo indigente: epperciò, la gelosia, l’invidia, il rancore provato verso un collega; l’occasione da cogliere al volo – per la propria promozione sociale – senza troppa fatica: tanto, comunque lo avrebbero fatto fuori, l’ebreo.

Dieci anni fa, stesse date d’oggi, fu Pierluigi Battista a soffermarsi sul Corriere della Sera su questo “lato oscuro” degli intellettuali italiani. Scriveva Battista: «Nel ’ 38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo (“non so bene perché diavolo lo faccio”) e scrisse: “Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza”. Fa molta impressione leggere, nel libro L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane di Annalisa Capristo, l’elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare “i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni”.

Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abba- gnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d’Entrèves e i Giuseppe Siri ( e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l’aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda».

Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l’appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche». Solitaria eccezione, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata». Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del Lungo viaggio attraverso il fascismo di Ruggero Zangrandi descrisse nel 1962 l’ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. “Non reagirono” gli scrittori che non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell’Italia democratica. La cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l’effetto delle leggi razziali dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato. E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l’abiezione della legislazione antiebraica.

Il 5 agosto del 1938 sulla rivista La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi – ma era già uscito in forma anonima sul Giornale d’Italia il 15 luglio col titolo “Il Fascismo e i problemi della razza” – viene pubblicato il manifesto redatto da dieci “scienziati”, i cui punti salienti sono: «LE RAZZE UMANE ESISTONO. L’esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti».

ESISTE ORMAI UNA PURA “RAZZA ITALIANA”. «Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico– linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana».

GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. «Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani».

Al Regio decreto legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che stabiliva «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fa seguito ( 6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo, successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio decreto legge a data 17 novembre dello stesso anno.

Sono dunque molti i decreti che, tra l’estate e l’autunno del 1938, sono firmati da Benito Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III. Tutti tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta “questione ebraica”. L’insieme di questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l’intero corpus delle leggi razziali. Fu Mussolini stesso, da un palco posto davanti al Municipio in Piazza Unità d’Italia a Trieste, a annunciarli per la prima volta il 18 settembre 1938, in occasione di una sua visita alla città.

Quest’anno, dunque, ricorre il triste anniversario degli ottanta anni da quelle leggi. Il presidente Mattarella, in occasione della Giornata della memoria, ha pronunciato un breve e vibrante intervento. Ne riporto alcuni passaggi: «Le leggi razziali rappresentano un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia. Ideate e scritte di pugno da Mussolini, trovarono a tutti i livelli delle istituzioni, della politica, della cultura e della società italiana connivenze, complicità, turpi convenienze, indifferenza. Con la nor- mativa sulla razza si rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista e si manifesta il distacco definitivo della monarchia dai valori del Risorgimento e dello Statuto liberale. Alla metà del 1938, con le leggi antiebraiche, rivolgeva il suo odio cieco contro una minoranza di italiani, attivi nella cultura, nell’arte, nelle professioni, nell’economia, nella vita sociale. Ma la persecuzione, da sola, non fu ritenuta sufficiente. Occorreva tentare di darle una base giuridica, una giustificazione ideologica, delle argomentazioni pseudo- scientifiche. Vennero cercati – e, purtroppo, si trovarono – intellettuali, antropologi, medici, giuristi e storici compiacenti. Nacque Il Manifesto della Razza. Letto oggi potrebbe far persino sorridere, per la mole di stoltezze, banalità e falsità contenute, se sorridere si potesse su una tragedia così immane. Eppure questo Manifesto, dalle basi così vacue e fallaci, costituì una pietra miliare della giurisprudenza del regime; e un nuovo “dogma” per moltissimi italiani, già assoggettati alla granitica logica del credere, obbedire, combattere. La penna propagandistica, efficace nel suo cinismo, coniò lo slogan con il quale intendeva rassicurare gli italiani e il mondo, nel tentativo di prendere, apparentemente, le distanze dall’antisemitismo nazista: Discriminare – disse Mussolini – non significa perseguitare. Ma cacciare i bambini dalle scuole, espellere gli ebrei dall’amministrazione statale, proibire loro il lavoro intellettuale, confiscare i beni e le attività commerciali, cancellare i nomi ebraici dai libri, dalle targhe e persino dagli elenchi del telefono e dai necrologi sui giornali costituiva una persecuzione della peggiore specie. Gli ebrei in Italia erano, di fatto, condannati alla segregazione, all’isolamento, all’oblio civile. In molti casi, tutto questo rappresentò la premessa dell’eliminazione fisica».

La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani e ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei nelle scuole pubbliche, il divieto per le scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.

Qualche anno fa, Stefano Lorenzetto per Il Giornale fece una lunga intervista a Liliana Segre, una delle poche ebree uscite vive da Auschwitz, che tornò a Milano nell’agosto del 1945, quando stava per compiere 15 anni. Liliana Segre da decenni incontra i ragazzi delle scuole per parlare loro di Shoah.

«Pesava 32 chili; la Segre ha perso nella Shoah, oltre al padre, altri sei familiari: i nonni paterni, e quattro cugini, Rosa Spiegel col figlio Felice e Rino Ravenna col fratello Giulio. “Rino si suicidò gettandosi dall’ultimo piano del raggio mentre eravamo reclusi a San Vittore. Ricordo il suo corpo scomposto sul pavimento del carcere: era il primo morto che vedevo in vita mia. La deportazione di Giulio si fermò invece a Fossoli: morì di stenti nel campo di concentramento vicino a Modena”. Dal 6 febbraio 1944 al 1° maggio 1945, quando fu liberata dalle truppe americane, la bambina con il pigiama a righe è passata attraverso quattro lager: da Auschwitz- Birkenau a Ravensbrück, poi in uno Jugendlager, infine a Malchow.

- Se dovesse dare una definizione sintetica di ciò che le è accaduto, che parole userebbe?

«Indifferenza, solitudine, pietà. Alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, il mondo intorno a noi rimase indifferente. Eppure eravamo persone oneste, con l’unica colpa d’essere nate. Io avevo 8 anni. Era una sera d’estate. Mio padre mi prese da parte e mi disse che non sarei più potuta tornare alla scuola elementare Fratelli Ruffini, perché ero ebrea. Avevo finito la seconda, aspettavo di andare in terza. Le mie amichette mi segnavano a dito per strada, senza pietà. È importante, la pietà. Per chi la prova e per chi la riceve».

- Come seppe che c’erano le camere a gas e i forni crematori?

«Me lo dissero le altre prigioniere. Lì per lì mi rifiutai di crederci. Li uccidono e li bruciano? Ma voi siete pazze! Ancora oggi, mi pare impossibile. Ma poi nella mente rivedo le ciminiere in fondo al campo, il fumo denso... Era tutto organizzato con illogica crudeltà. C’era un reparto che noi chiamavamo, non so perché, Canada. Selezionava tutto ciò che veniva strappato agli ebrei: valigie, occhiali, vestiti. E le scarpe. Ci toglievano le scarpe e ci davano in cambio un paio di zoccoli spaiati, di misure diverse, solo per il gusto di renderci più penoso il camminare nella neve. Io mi sono salvata perché fui mandata a lavorare al coperto, alla Union, che fabbricava proiettili per mitragliatrici. E perché durante la marcia della morte verso gli altri lager, cominciata dopo l’evacuazione di Auschwitz, ho ingoiato bucce di patate e ossi di pollo raccattati nei letamai, incurante del fatto che dopo poche ore sarei stata colta da dissenteria e vomito».

- E a lei pesa quel marchio sull’avambraccio sinistro?

«Ne vado fiera. La vergogna è di chi me l’ha impresso».
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