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Il crollo e le colpe delle odia ate élite
ANGIOLO BANDINELLI
Perché? Da dove nasce, dove ci porterà, cosa ci promette - o ci minaccia - la crisi delle élite che sta devastando in primo luogo quell’Occidente fino a ieri orgoglioso delle sue, rispettabili ed amate, spesso dalle radici secolari e oggi invece disprezzate, odiate, disarcionate dai monumenti in marmo o bronzo che erano stati eretti in loro onore ad ogni angolo di strada? E in Italia, dove la crisi appare nelle forme più gravi e corrosive, cosa dovremo aspettarci?
Non c’è tema oggi così in voga, ma anche così frainteso, come il tema delle élite. Sembrava pacifico che delle élite, in primo luogo le élite per eccellenza - le élite occidentali dei grandi paesi sviluppati nelle forme della democrazia – si sapesse tutto, almeno dalla fine del XIX secolo la sociologia se ne è molto occupata. Qui parliamo, s’intende, delle élite politiche, non delle elite in senso più generale, quelle che forse meglio sarebbe definire “classi dirigenti”, che comprendono anche intellettuali e imprenditori, grandi burocrati, addetti a commerci e professioni varie, insomma ceti e categorie non elettive, di formazione eterogenea, i cui comportamenti però influenzano direttamente il corpo sociale e - magari indirettamente - i comportamenti politici.
Secondo i giudizi più autorevoli, e nella conferma dell’esperienza storica, le élite tendono all’autoconservazione. Ciò porta ad una più o meno avvertita rigidità nella loro circolazione e ricambio; l’antipolitica teorizza addirittura la possibilità di fare a meno di un’élite politica, continuando ' così a chiedere risposte alla politica” proprio mentre la priva degli strumenti per darcele.
È Giovanni Orsina ad ammonirci che «la presenza di un’élite è condizione necessaria – ancorché non sufficiente – di un’azione politica e amministrativa minimamente sensata» ; aggiungendo che «un’élite non è un insieme casuale di persone più o meno competenti (...) ma una creatura storica complessa e delicata, che per nascere e svilupparsi ha bisogno di tempo, ri- sorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi». Nel 1922, Ortega y Gasset scrisse che «è un errore madornale» saltare dal fallimento di un’élite alla conclusione che si possa fare del tutto a meno di qualsiasi élite, in virtù magari di «teorie politiche e storiche che presentano come ideale una società esente di aristocrazia».
La nostra cultura e prassi occidentale esige che le élite siano aperte al ricambio, ad evitare che si cristallizzino in una immutabile “casta”. A prima vista, peraltro, «una élite assomiglia comunque parecchio a quella cosa detestabile che chiamiamo “casta”» : non è facile distinguere, comunque concordiamo, «la politica ha bisogno di una élite» ( sempre Giovanni Orsina, La Stampa, 22 dicembre 2016).
Con la fine dei regimi totalitari e delle loro élite ( o forse meglio, nel loro caso, classi dirigenti) selezionate e organizzate in modo piramidale e per cooptazione, sembra che il modello democratico- occidentale selezionato attraverso libere elezioni dovesse e potesse essere eterno - per quel che il termine può, in politica, significare: e infatti ci fu chi predisse la fine della storia, condannata ormai ad un infinito, ripetitivo presente, caratterizzato dal solo problema di come “esportare” la democrazia: sarebbe stata solo una questione di tempo, talvolta accellerato con modi un po’ spicci ma non messi in discussione se non, paradossalmente, da estremisti spesso essi stessi digiuni di democrazia.
Sembra oggi non sia più così semplice e chiaro: in tutti i paesi, a partire proprio da quelli occidentali, le élite sono piuttosto in crisi, galleggiano senza vento, inerti, in una bonaccia senza sbocco, prive di credibilità, e anche detestate presso quei popoli di cui erano fino a ieri rispettate, esemplari guide non solo per la loro professionalità ma anche nella loro moralità presa come esemplare dalla comunità dei cittadini, garantita dalla indiscussa e venerata pratica delle elezioni. Oggi quelle che erano, in quanto élite, la selezione ponderata delle qualità migliori di un popolo, sono denunciate come caste furfantesche avide di denaro e privilegi, isolate e incuranti del resto del mondo.
“Il re è nudo”, si potrebbe gridare se i rimproveri, le accuse, le colpe fossero accertati.
È cosi? La riflessione è avviata, i risultati sono ancora labili, discutibili. Su un solo tema c’è, pur nelle diverse analisi, una notevole concordia o confluenza, e cioè che tra le principali, determinanti cause della crisi delle élite e della loro funzione, statuto e modalità di nomina, ci siano due specifici fattori, in parte sovrapponibili tra loro: la globalizzazione e la diffusione del web, dei nuovi modi di comunicazione telematica. Come che sia, non vi è dubbio che da Trump all’Europa, antichi establishment da cui, un po’ come per i polli di batteria, si estraevano le élite, sono crollati, sono ormai incapaci di fornire nomi credibili e spendibili: i due grandi, secolari partiti americani, il repubblicano e il democratico, hanno ceduto il campo a uno sconosciuto inesperto di grande politica; in Inghilterra, sulla ragionevolezza e le capacità di mediazione delle sue famose élite hanno avuto ragione le pulsioni di una provincia istintivamente e irrazionalmente misoneista, la Germania vede vacillare la sua stabilità, in Francia ha successo una figura inquieta e forzatamente innovatrice su partiti svigoriti o non credibili.
E in Italia? In Italia generazioni di élite selezionate dalle incubatrici di ideologie apparentemente inattaccabili - dalla cattolico- clericale alla marxista - sono spazzate via e può essere candidato a governare il Paese un oscuro accademico dal curriculum non proprio specchiato, issato sulle spalle di due movimenti uniti da un unico obiettivo, spazzare via élite o caste.
Limitiamoci al nostro caso, anche se forse troppo sbilanciato ed estremo per essere indicativo e universalmente valido. E’ unanime - credo si possa dire - il riconoscimento che le vecchie e “collaudate” matrici delle nostre élite siano ormai vuote crisalidi. Peggio ancora, il termine élite, che non era di per sé negativo e discreditante, è divenuto sinonimo, o è stato perfettamente sostituito dal termine “casta”, connotativo di un gruppo di persone che, ricoprendo cariche pubbliche, difendono e incrementano privilegi personali ingiustificati. Ciò è conseguente al successo del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo La casta - Così i politici italiani sono diventati intoccabili ( uscito il 2 maggio del 2007). A sua volta, il titolo nasce da una frase di Walter Veltroni ( citata nel libro): «Quando i partiti si fanno caste di professionisti, la principale campagna antipartiti viene dai partiti stessi» ( in Spagna la parola “casta” fu usata con la stessa accezione nella retorica del partito politico Podemos durante il corso del 2014).
Quale che ne sia l’origine, il binomio “élite” e “casta” è ormai in Italia univoco, i due termini sono sovrapponibili. Quanto sta succedendo in queste ore, con la rivolta dei due partiti populisti contro le Istituzioni, il Presidente Mattarella, ecc., è significativo. L’ondata rischia di travolgere, alla fin fine, l’intero retaggio storico su cui le istituzioni insistono per trarre la loro maggiore legittimazione.
Tempo fa, un uomo politico sicuramente democratico, Matteo Renzi, scoprì l’arte della rottamazione, come sinonimo di svecchiamento. L’idea fu sua, le conseguenze hanno alla fine travolto anche lui; evidentemente, sul piano inclinato della rottamazione ci sarà sempre un rottamatore più rottamatore di te. E’ l’effetto slavina, o valanga. Ciò che colpisce, però, è che questi populisti che stanno rottamando quasi tutto il nostro passato storico- politico, lo fanno nel nome della “sovranità” intangibile, anzi della “identità” del popolo. Il loro antieuropeismo ha queste radici ideologiche. Da una parte rottamatori di ogni istituzione, dall’altra difensori di un “popolo”, ridotto però ad una poltiglia senza più l’ossatura della sua
vera identità, l’identità storica. Ogni élite è élite del suo tempo e del suo contesto: al di fuori di questi due parametri, una determinata élite si dissolve.
Non c’è una élite buona per tutte le stagioni. Se l’élite storica, formatasi nei decenni, dell’Italia di ieri è stata disarcionata, non si riesce ancora a vedere di quale paese, di quale contesto sia élite quella che si sta avvicinando, pare ineluttabilmente, al potere. Alla marea montante dei populisti che ne hanno legalmente preso il posto non si vede chi possa opporre un argine, prospettando una alternativa credibile, spendibile in termini non storici ma politici. Certamente, sentiamo una infinità di voci che propongono e sostengono la ricostituzione di una “identità” della, o delle sinistre che possa reclamare il suo ruolo, oggi di opposizione e domani di governo. Ma i parametri che vengono suggeriti come fondamenta di questa ricostruzione sono esattamete quelli che la storia, ancor più che la politica, ha da tempo spazzato via. Vorremo, finalmente, capirlo? Globalizzazione economica e cultura del web sono non ventate passeggere, ma pilastri ineluttabili del comune futuro, ed è a partire da questa consapevolezza che dobbiamo lavorare alla nascita e al consolidamento delle nostre élite.
Il crollo e le colpe delle odia ate élite
ANGIOLO BANDINELLI
Perché? Da dove nasce, dove ci porterà, cosa ci promette - o ci minaccia - la crisi delle élite che sta devastando in primo luogo quell’Occidente fino a ieri orgoglioso delle sue, rispettabili ed amate, spesso dalle radici secolari e oggi invece disprezzate, odiate, disarcionate dai monumenti in marmo o bronzo che erano stati eretti in loro onore ad ogni angolo di strada? E in Italia, dove la crisi appare nelle forme più gravi e corrosive, cosa dovremo aspettarci?
Non c’è tema oggi così in voga, ma anche così frainteso, come il tema delle élite. Sembrava pacifico che delle élite, in primo luogo le élite per eccellenza - le élite occidentali dei grandi paesi sviluppati nelle forme della democrazia – si sapesse tutto, almeno dalla fine del XIX secolo la sociologia se ne è molto occupata. Qui parliamo, s’intende, delle élite politiche, non delle elite in senso più generale, quelle che forse meglio sarebbe definire “classi dirigenti”, che comprendono anche intellettuali e imprenditori, grandi burocrati, addetti a commerci e professioni varie, insomma ceti e categorie non elettive, di formazione eterogenea, i cui comportamenti però influenzano direttamente il corpo sociale e - magari indirettamente - i comportamenti politici.
Secondo i giudizi più autorevoli, e nella conferma dell’esperienza storica, le élite tendono all’autoconservazione. Ciò porta ad una più o meno avvertita rigidità nella loro circolazione e ricambio; l’antipolitica teorizza addirittura la possibilità di fare a meno di un’élite politica, continuando ' così a chiedere risposte alla politica” proprio mentre la priva degli strumenti per darcele.
È Giovanni Orsina ad ammonirci che «la presenza di un’élite è condizione necessaria – ancorché non sufficiente – di un’azione politica e amministrativa minimamente sensata» ; aggiungendo che «un’élite non è un insieme casuale di persone più o meno competenti (...) ma una creatura storica complessa e delicata, che per nascere e svilupparsi ha bisogno di tempo, ri- sorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi». Nel 1922, Ortega y Gasset scrisse che «è un errore madornale» saltare dal fallimento di un’élite alla conclusione che si possa fare del tutto a meno di qualsiasi élite, in virtù magari di «teorie politiche e storiche che presentano come ideale una società esente di aristocrazia».
La nostra cultura e prassi occidentale esige che le élite siano aperte al ricambio, ad evitare che si cristallizzino in una immutabile “casta”. A prima vista, peraltro, «una élite assomiglia comunque parecchio a quella cosa detestabile che chiamiamo “casta”» : non è facile distinguere, comunque concordiamo, «la politica ha bisogno di una élite» ( sempre Giovanni Orsina, La Stampa, 22 dicembre 2016).
Con la fine dei regimi totalitari e delle loro élite ( o forse meglio, nel loro caso, classi dirigenti) selezionate e organizzate in modo piramidale e per cooptazione, sembra che il modello democratico- occidentale selezionato attraverso libere elezioni dovesse e potesse essere eterno - per quel che il termine può, in politica, significare: e infatti ci fu chi predisse la fine della storia, condannata ormai ad un infinito, ripetitivo presente, caratterizzato dal solo problema di come “esportare” la democrazia: sarebbe stata solo una questione di tempo, talvolta accellerato con modi un po’ spicci ma non messi in discussione se non, paradossalmente, da estremisti spesso essi stessi digiuni di democrazia.
Sembra oggi non sia più così semplice e chiaro: in tutti i paesi, a partire proprio da quelli occidentali, le élite sono piuttosto in crisi, galleggiano senza vento, inerti, in una bonaccia senza sbocco, prive di credibilità, e anche detestate presso quei popoli di cui erano fino a ieri rispettate, esemplari guide non solo per la loro professionalità ma anche nella loro moralità presa come esemplare dalla comunità dei cittadini, garantita dalla indiscussa e venerata pratica delle elezioni. Oggi quelle che erano, in quanto élite, la selezione ponderata delle qualità migliori di un popolo, sono denunciate come caste furfantesche avide di denaro e privilegi, isolate e incuranti del resto del mondo.
“Il re è nudo”, si potrebbe gridare se i rimproveri, le accuse, le colpe fossero accertati.
È cosi? La riflessione è avviata, i risultati sono ancora labili, discutibili. Su un solo tema c’è, pur nelle diverse analisi, una notevole concordia o confluenza, e cioè che tra le principali, determinanti cause della crisi delle élite e della loro funzione, statuto e modalità di nomina, ci siano due specifici fattori, in parte sovrapponibili tra loro: la globalizzazione e la diffusione del web, dei nuovi modi di comunicazione telematica. Come che sia, non vi è dubbio che da Trump all’Europa, antichi establishment da cui, un po’ come per i polli di batteria, si estraevano le élite, sono crollati, sono ormai incapaci di fornire nomi credibili e spendibili: i due grandi, secolari partiti americani, il repubblicano e il democratico, hanno ceduto il campo a uno sconosciuto inesperto di grande politica; in Inghilterra, sulla ragionevolezza e le capacità di mediazione delle sue famose élite hanno avuto ragione le pulsioni di una provincia istintivamente e irrazionalmente misoneista, la Germania vede vacillare la sua stabilità, in Francia ha successo una figura inquieta e forzatamente innovatrice su partiti svigoriti o non credibili.
E in Italia? In Italia generazioni di élite selezionate dalle incubatrici di ideologie apparentemente inattaccabili - dalla cattolico- clericale alla marxista - sono spazzate via e può essere candidato a governare il Paese un oscuro accademico dal curriculum non proprio specchiato, issato sulle spalle di due movimenti uniti da un unico obiettivo, spazzare via élite o caste.
Limitiamoci al nostro caso, anche se forse troppo sbilanciato ed estremo per essere indicativo e universalmente valido. E’ unanime - credo si possa dire - il riconoscimento che le vecchie e “collaudate” matrici delle nostre élite siano ormai vuote crisalidi. Peggio ancora, il termine élite, che non era di per sé negativo e discreditante, è divenuto sinonimo, o è stato perfettamente sostituito dal termine “casta”, connotativo di un gruppo di persone che, ricoprendo cariche pubbliche, difendono e incrementano privilegi personali ingiustificati. Ciò è conseguente al successo del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo La casta - Così i politici italiani sono diventati intoccabili ( uscito il 2 maggio del 2007). A sua volta, il titolo nasce da una frase di Walter Veltroni ( citata nel libro): «Quando i partiti si fanno caste di professionisti, la principale campagna antipartiti viene dai partiti stessi» ( in Spagna la parola “casta” fu usata con la stessa accezione nella retorica del partito politico Podemos durante il corso del 2014).
Quale che ne sia l’origine, il binomio “élite” e “casta” è ormai in Italia univoco, i due termini sono sovrapponibili. Quanto sta succedendo in queste ore, con la rivolta dei due partiti populisti contro le Istituzioni, il Presidente Mattarella, ecc., è significativo. L’ondata rischia di travolgere, alla fin fine, l’intero retaggio storico su cui le istituzioni insistono per trarre la loro maggiore legittimazione.
Tempo fa, un uomo politico sicuramente democratico, Matteo Renzi, scoprì l’arte della rottamazione, come sinonimo di svecchiamento. L’idea fu sua, le conseguenze hanno alla fine travolto anche lui; evidentemente, sul piano inclinato della rottamazione ci sarà sempre un rottamatore più rottamatore di te. E’ l’effetto slavina, o valanga. Ciò che colpisce, però, è che questi populisti che stanno rottamando quasi tutto il nostro passato storico- politico, lo fanno nel nome della “sovranità” intangibile, anzi della “identità” del popolo. Il loro antieuropeismo ha queste radici ideologiche. Da una parte rottamatori di ogni istituzione, dall’altra difensori di un “popolo”, ridotto però ad una poltiglia senza più l’ossatura della sua
vera identità, l’identità storica. Ogni élite è élite del suo tempo e del suo contesto: al di fuori di questi due parametri, una determinata élite si dissolve.
Non c’è una élite buona per tutte le stagioni. Se l’élite storica, formatasi nei decenni, dell’Italia di ieri è stata disarcionata, non si riesce ancora a vedere di quale paese, di quale contesto sia élite quella che si sta avvicinando, pare ineluttabilmente, al potere. Alla marea montante dei populisti che ne hanno legalmente preso il posto non si vede chi possa opporre un argine, prospettando una alternativa credibile, spendibile in termini non storici ma politici. Certamente, sentiamo una infinità di voci che propongono e sostengono la ricostituzione di una “identità” della, o delle sinistre che possa reclamare il suo ruolo, oggi di opposizione e domani di governo. Ma i parametri che vengono suggeriti come fondamenta di questa ricostruzione sono esattamete quelli che la storia, ancor più che la politica, ha da tempo spazzato via. Vorremo, finalmente, capirlo? Globalizzazione economica e cultura del web sono non ventate passeggere, ma pilastri ineluttabili del comune futuro, ed è a partire da questa consapevolezza che dobbiamo lavorare alla nascita e al consolidamento delle nostre élite.
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